UN NATALE DIVERSO

Quest’anno le festività di Natale e Capodanno saranno diverse. Per colpa della pandemia o, secondo i soliti ipercritici, per colpa del governo.

Niente veglioni rumorosi, brindisi nelle piazze, cenoni affollati. Niente Messa di mezzanotte, addirittura! Ci aspetta un nuovo stile: sobrio, intimo magari. E poi, la Messa va bene a qualunque ora, quando si crede.

Ma le festività sono solo cibo, caciara e, per chi può, settimana bianca? Forse no e, nella prospettiva di questo obbligatorio nuovo stile, vorrei proporre una riflessione meno consueta, e una domanda un po’ “stupida”: ma perché Natale e Capodanno cadono proprio in questo periodo?

Perché questo è un periodo molto particolare: le notti si allungano, i giorni sono più brevi. Siamo nel periodo solstiziale. Per la cultura occidentale il solstizio d’inverno sembra essere particolarmente significativo, e i nostri antenati avevano l’usanza di solennizzarlo con lunghi e fastosi festeggiamenti.

Questa è la notte più lunga dell’anno: e allora? Non succede, forse, tutti gli anni? E perché mai festeggiare un evento astronomico così abituale?

Al giorno d’oggi il buio, il freddo, la luce, il caldo non sembrano cose importanti: ci sono le lampadine elettriche, il riscaldamento, la climatizzazione. Ma forse, nell’antichità, l’uomo era più profondamente consapevole dei mutamenti del cielo e della terra e del fatto che l’alba successiva a questa lunghissima notte non avrebbe annunciato soltanto un nuovo giorno: questa è, infatti, l’alba di un nuovo anno, cioè di un nuovo ciclo della natura, di un nuovo inizio. Fatto sta che diverse festività erano o sono collocate tradizionalmente in corrispondenza del solstizio invernale. Nell’antica Roma vi erano 7 giorni di festa, i cosiddetti “saturnalia”, giorni dedicati a Saturno, il Crono della mitologia greca: il dio che divora i suoi figli, così come il tempo (cronos in greco) genera e consuma ogni creatura nel suo inesorabile cammino. Saturno, il cui metallo è il piombo – metallo greve, oscuro e freddo come questa notte – che alchemicamente si trasforma in oro: l’oro della mitica età felice, quando proprio Saturno/Crono regnava sull’Olimpo; l’oro del sole che ritorna ad un nuovo ciclo annuale.

In Siria ed Egitto si celebrava la festa della nascita del dio-sole, partorito da una vergine (anche lui) poco dopo il solstizio, probabilmente proprio il 25 dicembre; a mezzanotte, i sacerdoti uscivano dai templi annunziandone la nascita. Tale festa fu poi introdotta nell’impero romano, dedicandola al dio “sol invictus”, a ricordare che il declino invernale del sole è solo provvisorio, perché questo astro ritornerà, non vinto, a splendere in un eterno ciclo di rinascita.

Certamente il solstizio aveva un senso profondo per un’umanità più vicina alla natura, più consapevole del volgere delle stagioni, più legata all’osservazione del cielo, ma, soprattutto, più pronta a cogliere il senso simbolico degli eventi. Così anche la cristianità dei primi secoli stabilì nel periodo solstiziale la ricorrenza del Natale: il divino Bambino nasce dopo la notte più lunga; è come un nuovo sole, oggi piccolo ed indifeso, che, crescendo, porterà sulla terra una nuova luce; germoglia nel buio di una grotta, come un seme interrato per portare il suo frutto, una vita nuova.

E, per venire ad aspetti oggi più visibili del Natale, il pancione di Babbo Natale è un augurio di abbondanza. Ma non è panciuto anche Budda, a rappresentare la pienezza dell’illuminazione, della realizzazione spirituale? Infatti, Babbo Natale ha un’origine, meno profana e commerciale, in San Nicola, uno dei primi santi della cristianità, vissuto nella Licia bizantina, che diventa Santa Claus nel nord Europa, per poi vestire, più recentemente, i panni rossi e bianchi con cui attualmente è rappresentato. Egli discende nelle case dal cielo, lungo la verticale del camino, e porta doni ai bambini come per onorare il rinnovamento della vita. Ma i bambini, con la loro innocenza, rappresentano anche il rinnovarsi della vita spirituale, che negli adulti è forse un po’ appassita, se non corrotta dalle vicende della vita quotidiana.

Altra festa cristiana “solstiziale” è Santa Lucia, il cui nome è con evidenza legato al concetto di luce. La sua leggenda (in realtà priva di basi storiche, ma diffusa in tutto il mondo cristiano) vuole che gli occhi le siano stati miracolosamente restituiti, salvandola dalla cecità. Nell’iconografia dei “santini” Lucia mostra un secondo paio di occhi in una coppa, a rappresentare simbolicamente di aver conquistato una seconda vista, quella spirituale. Proprio in Scandinavia, dove le notti di dicembre sono particolarmente lunghe e buie, oscure come la transitoria cecità di Lucia, questa ricorrenza è molto sentita: si accendono candele, quasi a voler anticipare o invocare il ritorno della luce (il sole, la vista) e si portano, di nuovo, doni ai bambini, simbolo di vita nuova.

E, a proposito del rinnovarsi della vita, come non pensare all’autore della Vita nova (nel duplice significato di rinascita spirituale e di infanzia), cioè Dante. Non per caso Lucia ha una posizione estremamente importante nella sua Commedia. Fin dall’inizio ha un ruolo chiave nel salvataggio del poeta. Proprio a lei, infatti, la Vergine dice: “Or ha bisogno il tuo fedele / di te, ed io a te lo raccomando”. E Lucia, “nimica di ciascun crudele” va da Beatrice, che a sua volta chiama Virgilio, dando il via al viaggio dantesco. Come dire che alla radice di ogni rinascita, di ogni umana catarsi, vi è una luce celeste (Lucia), che risveglia l’amore (Beatrice), che mette in movimento l’umana ragione (Virgilio), segnando così la gerarchia delle forze in gioco in un difficile cammino di rinascita dall’ombra perigliosa della “selva oscura”. Quando poi Dante è giunto quasi a metà strada del suo viaggio, sulla soglia del Purgatorio, cade addormentato ed ancora una volta Lucia deve muoversi in suo aiuto: “Venne una donna e disse: i’ son Lucia / lasciatemi pigliar costui che dorme; / sì l’agevolerò per la sua via”. La santa lo trasporta in volo trasfigurandosi in aquila dalle penne d’oro e lo deposita alla porta del Purgatorio: “Qui ti posò ma pria mi dimostraro / li occhi suoi belli quella intrata aperta: / poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro”: come dire che il risveglio, che conduce alla rinascita, ha bisogno di una luce spirituale, rappresentata dagli “occhi belli” di Lucia, e che noi, addormentati nella quotidianità della vita, non riusciamo a vedere il “passaggio stretto” che porta al rinnovamento della vita. Infine, nel penultimo canto del Paradiso, dove Dante raggiunge l’Empireo, ecco che “contro al maggior padre di famiglia / siede Lucia, che mosse la tua donna, / quando chinavi, a ruinar, le ciglia”. Adamo, nostro progenitore biologico (il maggior padre di famiglia) e Lucia, la luce dello spirito, sono posti l’uno di fronte all’altro nell’empireo: similmente, nelle festività tradizionali del solstizio, si celebrano sia la vita materiale che si rinnova con il nuovo ciclo solare, sia la rinascita spirituale.

Anche la tradizione ebraica ha la sua festa solstiziale, Hanukkah. La festa ha un’origine storica: la liberazione d’Israele dal re pagano Antioco ad opera di Giuda Maccabeo. Da qui la riconsacrazione del tempio di Gerusalemme e la riaccensione della Menorah, con il prodigio dell’olio che brucia per 8 giorni, pur essendo in quantità piccolissima. Per ricordare questo prodigio, per 8 giorni, ogni giorno si accende una candela, che viene posta in un candelabro ad 8 braccia. Anche per Hanukkah si fanno doni ai bambini. Questa festività celebra il ritorno della luce (la riaccensione della Menorah) e la rinascita del sacro (la nuova consacrazione del Tempio). Per 8 giorni si portano doni ai bambini, onorando in loro, ancora una volta, il rinnovamento biologico e spirituale della vita.

Un altro aspetto suggestivo è che il solstizio è anche, come si evince dalla sua etimologia, il punto di arresto, di pausa, nel cammino apparente del sole. In astronomia è definito come il momento in cui il Sole raggiunge, nel suo moto apparente lungo l’eclittica, il punto di declinazione massima o minima. Il punto in cui sorge il sole sull’orizzonte si sposta, infatti, lungo il corso dell’anno fino a raggiungere, appunto il 21 dicembre, l’estremità meridionale del suo cammino. Qui, sembra fermarsi brevemente, per poi riprendere in senso opposto, con un perfetto periodismo annuale. Questo moto apparente scandisce un ritmo (un ritmo di 4/4): inverno/primavera/estate/autunno… È uno dei molteplici ritmi segnati dai corpi celesti. Ce n’è di più veloci (le fasi lunari di 28 giorni, il ritmo circadiano di 24 ore), di enormemente più lenti (la precessione degli equinozi, con il suo periodismo epocale: età del toro, dell’ariete, dei pesci, dell’acquario…) e di intermedi, come i cicli dei pianeti o il periodismo delle comete e delle eclissi. Il cosmo manifesta con questo insieme di ritmi (vorrei dire: con un concerto di ritmi) l’armonia della sua perfezione. Sembra voler testimoniare che l’Essere Supremo non è soltanto Creatore, ma anche Musicista.

Andando avanti su questo sentiero, non possiamo non notare che anche qui, sulla terra, vi sono ritmi e armonie: il ritmo delle maree e delle onde, il ciclo stagionale delle piante, il respiro nictemerale della fotosintesi, le straordinarie simmetrie pentagonali dei fiori… e qui mi fermo, perché non basterebbe questa lunga notte solstiziale a farne un elenco anche parziale. E l’uomo? Non ha forse i suoi ritmi: i battiti del cuore, il respiro, il camminare, il crescere e declinare, il…vivere? Forse non c’è un esempio migliore per rappresentare la saggezza della tavola di smeraldo della tradizione ermetica: così in alto (l’armonia del cielo) come in basso (l’armonia della natura) per la meraviglia della cosa unica (perché siamo tutti parte dello stesso meraviglioso “tutto”).

Quindi, il solstizio non rappresenta soltanto il calare e crescere della luce solare, ma anche il ritmo del cosmo, la musica delle sfere celesti e l’armonia della natura, della vita e dell’uomo. Ecco che l’interesse dei nostri più antichi antenati per il solstizio costituisce una tradizione, illuminata dalla ricerca del senso più profondo e nascosto delle cose: il solstizio non è più un mero evento astronomico o stagionale, ma il segno di una lettura diversa della Natura e dell’uomo, lettura che si sforza di tenere insieme il fenomeno sensibile e la sua radice profonda, la sua essenza trascendentale. Ecco perché il Natale è stato posto in tutta vicinanza del solstizio invernale e la tradizione cristiana si è armonizzata con festività più antiche ma egualmente significative.

Credo che, quando Immanuel Kant scrisse “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, volesse dire che, se l’uomo fa parte di questo tutto armonico, non può non sentire che la sua armonia più profonda risiede proprio nella legge morale. Ed infatti, cosa nell’uomo è più terribilmente disarmonico che fare del male? Un uomo che sia consapevole dell’armonia del creato e cerchi di essere con questa in sintonia, non può non riconoscere dentro di sé la legge morale come riflesso inevitabile dell’armonia stessa del cosmo. Perciò, chi è in armonia non potrà mai ingiustamente offendere, colpire o addirittura uccidere un altro essere umano. Non potrà non rispettare le leggi del convivere civile. Non potrà rifiutarsi, per la sua parte, di soccorrere nel bisogno gli altri esseri umani. Non potrà mai violare, depauperare, inquinare la terra che gli ha dato vita e che lo sostiene.

Allora riflettiamo che Natale e Capodanno valgono molto più del panettone e dello spumante. Che anche questi, come tanti altri dolci tipici del periodo, hanno un senso più profondo, perché sono un pane speciale più dolce e più buono, ed un vino speciale, dove lo spirito “fermenta” e diventa esuberante ed esplosivo.

Forse, se ci poniamo in ascolto ed in sintonia con i ritmi dell’universo, non sentiremo più la mancanza di una settimana bianca. Ed anche questo inverno meno festaiolo ritroverà il suo senso.

di Cesare Pirozzi                                            

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