Mank che scrive un secolo fa il film del suo presente

Basta visitare Disneyland o gli Universal Studios per capire la passione degli americani per i cliché. Il genere cinematografico stesso è un cliché. Western, poliziesco, d’avventura, d’animazione, comico, musicale, sentimentale, politico che sia, ognuno di questi tipi di film deve avere delle inconfondibili caratteristiche narrative e soprattuto d’immagine, d’atmosfera. Caratteristiche che devono immediatamente sprigionare il fascino della situazione. Il cliché è proprio la capacità di sintetizzare in sé tutti gli elementi sparpagliati di un genere per esaltarne il fascino e catturare così lo spettatore. È quello che tenta di fare Davide Fincher nel suo film Mank, 2020. Ed elegge non solo uno specifico genere, ma un’intera epoca cinematografica a cliché. Il regista riesce a rendere cliché il bianco e nero stesso, la sua pasta, la sua grana, le sue tonalità di luci e ombre delle pellicole hollywoodiane di ormai quasi un secolo fa. Per non parlare delle inquadrature, dei movimenti della macchina da presa e del montaggio. È come se il quella particolare atmosfera del cinema americano stesse spargendo i semi del suo riaffiorare futuro, ossia carica proprio in questo nostro presente del fascino sintetico dei suoi cliché.    

Il Mank del titolo è lo sceneggiatore americano di origine polacca Herman Jacob Mankiewicz. L’autore del copione di Quarto Potere, il film che fa immediatamente ascendere Orson Welles nell’Olimpo del cinema mondiale. Herman aveva anche un fratello, Joseph Leo, detto Joe, certamente più ricordato di lui, per numerose sceneggiature, regie e ben quattro Oscar. Il film si snoda su due registri. Il primo quello della scrittura nel 1940 di Quarto Potere; il secondo quello della Hollywood degli anni ’30, della crisi economica e sociale americana e del gruppo di sceneggiatori della Metro Goldwyn Mayer, di cui Herman è elemento di punta. Ne emerge un personaggio ruvido, coriaceo, coltissimo, informatissimo, spesso preda dell’alcol e di micidiali battute ironiche che trancia nei suoi copioni e nella vita reale. Quando era in Polonia Mank ha anche salvato un centinaio di famiglie ebree dai campi di sterminio e scritto un film sui nazisti che nessuno gli ha mai prodotto. Herman sempre più apertamente si scontra con i suoi padroni della MGM, sia per le scelte cinematografiche, sia per quelle che lui giudica ignobilmente politiche, di bieco potere affaristico-reazionario. Il bersaglio di Quarto Potere, come si sa, è proprio uno di questi magnati ben conosciuti da Mank. Si tratta di William Randolph Hearst, che nel film di Orson Wells assume il nome del titolo Citizen Kane, interpretato dallo stesso regista. 

Gary Oldman, nei panni di Mank, si ritrova nella stessa situazione del suo precedente acclamato film L’ora più buia, in cui è Winston Churchill. Come lo statista britannico, anche lo sceneggiatore americano detta le sue pagine a una valente dattilografa, la quale – in entrambi casi – ha un fidanzato al fronte di cui non si hanno più notizie. Il contenuto è di un’attualità esplicita. La testimonianza di chi non si fa piegare dal potere, non cede ai suoi ricatti, ai suoi tentativi di corromperlo, comprarlo, di disconoscere le sue qualità o usarle ai fini della pura menzogna ideologica. Sul piano della forma, che è qui un aspetto rilevante dello stesso contenuto, c’è da dire che la pur perfetta rappresentazione di quell’atmosfera di cinema e realtà, è troppo uniformemente reiterata, senza variazioni non esteriormente riproduttive, ma interiormente produttive. Su Netflix.

di Riccardo Tavani

 

Print Friendly, PDF & Email