La biblioteca come dispositivo pedagogico preventivo
Scrittura, libri e biblioteche.
L’invenzione della scrittura, sistema convenzionale di segni grafici finalizzato a trasmettere il linguaggio in forma visiva, è strettamente legata all’organizzazione delle società più complesse, che avevano necessità di un apparato di documentazione maggiore di quello fino a quel momento usato, cioè orale.
Si inizia a comunicare attraverso pittogrammi (oggetti rappresentati da disegni), intorno al 3300 a.C. in Mesopotamia, poi con ideogrammi, che nascono dalla moltiplicazione infinita dei pittogrammi dovuta alla difficoltà di esprimere concetti astratti. In seguito, le scritture ideografiche tendono a trasformarsi in scritture sillabiche, diventando un mezzo espressivo che porterà, nella seconda metà del terzo, nel secondo e poi nel primo millennio a.C. ad un’inondazione di testi scritti.
Si scrive su tutto[1] e di tutto: atti amministrativi, leggi, decreti, codici, liste, documentazioni, iscrizioni celebrative e funerarie; ma anche ciò che concerne la sfera religiosa – rituali, inni, preghiere, incantesimi, esorcismi – la matematica, la medicina e tutto ciò che riguarda la sfera privata, la famiglia e gli affetti. Da qui l’esigenza di conoscere il codice, il sistema di scrittura, che comporta un apprendimento: quella che oggi chiamiamo scuola, per imparare a scrivere e a leggere le scritture sillabiche.
L’ultima finale trasformazione della scrittura, preludio della nascita del libro, avviene nell’area Mediterranea intorno la fine del secondo e l’inizio del primo millennio a.C.: nasce la scrittura alfabetica, che mette per iscritto il parlato in forma integrale e che consente di scrivere anche testi molto lunghi.
I primi a nascere sono i testi sacri: “Viene da qui, e perdura fin ad oggi, l’aura di sacralità che circonda i libri, tutti i libri, in quanto tali, e che li rende oggetti sacri, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Da qui la visione della biblioteca come tempio e dei suoi frequentatori e addetti come chierici o sacerdoti. Da qui soprattutto uno dei modi fondamentali di intendere tutt’oggi il libro, la bibliofilia, l’amore per l’oggetto libro, inteso più come cosa che come contenuto”.[2]
Le biblioteche hanno la capacità di rispondere ai bisogni quotidiani, per quel che riguarda l’informazione o la ricreazione; esprimono un’istanza di uguaglianza, dando la possibilità anche a chi non ha i mezzi per farlo di avere accesso all’istruzione; rappresentano un’espressione di democrazia o, ancora di più, di identità collettiva.
Italo Calvino afferma che si scrive sempre di qualcosa che non sappiamo: “scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione” [3]. Un principio valido dall’inizio dei tempi fino ad oggi.
Lo sviluppo e la diffusione irreversibile della scrittura, grazie anche allo spostamento di uomini e merci, porta pertanto un mutamento anche a livello sociale, trasformando la società dell’oralità a quella della scrittura.
“Il libro impone al lettore l’incontro rinnovato con una alterità sempre nuova e sempre in movimento. La lezione del libro è la lezione dell’aperto contro il chiuso”[4].
Luciano Canfora sottolinea che Don Chisciotte “fu spinto all’agire dalla continua e sempre più coinvolgente lettura di libri”. E che il suo autore, Cervantes, dichiara nel prologo del libro di avere generato “nel fondo di un carcere” l’invenzione di questo protagonista ossuto e fantastico. Sempre Canfora ricorda che anche Antonio Gramsci, proprio da un carcere, scrisse i Quaderni. Un accostamento che serve all’autore per poter affermare che “è antico e molteplice il nesso tra libro e libertà”[5], riflessione che parte dall’omografia della parola latina liber, che significa sia “libro” che “libero”.
La storia del libro, infatti, è costituita da materia cartacea ma non solo, ne fanno parte anche il lavoro umano, la fatica, i privilegi. C’è un rapporto fondante tra libro e potere: la produzione letteraria, nel tempo, si è andata sviluppando attraverso un rapporto stretto con il potere; lo ha infatti servito, vi si è ribellata, in ogni caso non ne ha mai potuto prescindere.
“Contro i libri non valgono persecuzioni. Né gli eserciti, né l’oro, né le fiamme possono nulla contro di essi. Voi potete far sparire un’opera, ma non potete tagliare la testa a tutti coloro che se ne sono nutriti. (…) Contro i libri si sono accanite tutte le forme di stato e di religione, ma questo odio non è niente in confronto a quanto sono stati amati. Perché se un principe orientale fanatico brucia la biblioteca di Alessandria, altrove Alessandro di Macedonia fa costruire una casa favolosa, coperta di smalti e di pietre preziose, per conservare l’Iliade di Omero (…)”[6].
Salvare i libri e gli uomini
Quando nel 2014 Mosul cade nelle mani dei miliziani dello Stato islamico, decine di migliaia di cristiani fuggono dalla piana di Ninive, nel nord dell’Iraq. In poche ore, intere famiglie sono costrette ad abbandonare case, chiese e cimiteri. Lasciano la terra di Noè, Abramo e Tommaso, che sono state loro per due millenni.[7]
In questo assalto di crudeltà, Michaeel Najeeb, domenicano nato a Mosul in una famiglia di rito caldeo, salva centinaia di manoscritti secolari che i jihadisti hanno giurato di bruciare, mentre distruggevano Palmyra o saccheggiavano la tomba di Giona. A rischio della sua vita, questo domenicano pulisce, ripristina e protegge quei testi sacri. E nel contempo crea le condizioni – una specie di moderna arca – per salvare da questo nuovo diluvio famiglie di tutte le fedi, cristiani, yazidi o musulmani, tutti figli del disastro. Li nutre, li alloggia, li incoraggia.
Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, padre Najeeb carica frettolosamente due veicoli, mentre Daesh si avvicina. Si unisce alla fila dei rifugiati sulla strada. Persone anonime lo aiutano a superare le dighe. I proiettili vanno e vengono da tutti i lati. Non è l’unico “eroe” di questo giorno memorabile; altri prendono parte con lui a questa epica impresa.
A Erbil il domenicano apre un centro in cui gli iracheni di tutte le fedi posso vivere in container. Al contempo, nel seminterrato dell’edificio, digitalizza libri, spesso rari – trattati di medicina, astronomia, trattati di spiritualità – e chiede ai giovani di aiutarlo.[8]
Padre Najeeb spende tutte le sue energie per salvare gli uni e gli altri. Sa che salvando i libri salva la storia della piana di Ninive e dell’Iraq. Sa che preservando il passato del suo Paese, culla della civiltà, salva il cuore dell’umanità. È qui, in questa regione del mondo, che è apparsa la scrittura. Cosa sarebbe un popolo senza storia e senza memoria?
La vicenda del domenicano di Mosul non è certamente unica e isolata. In tutte le epoche e in tutte le civiltà i libri sono stati vittime di catastrofi naturali, roghi, guerre, censure, intolleranza politica e religiosa. Da quando è nata la scrittura, gli elementi della natura e la volontà distruttrice dell’uomo hanno messo in pericolo la sopravvivenza degli strumenti e dei supporti che servono alla trasmissione delle idee e della memoria. Dalle tavolette sumere al saccheggio di Bagdad, dalla sparizione della leggendaria biblioteca di Alessandria agli abusi degli inquisitori fino alle persecuzioni operate dai totalitarismi del Novecento.
Uno degli episodi più toccanti è stato narrato da Antonia Arslan nel Libro di Mush.[9]
In una notte di fine giugno del 1915, due donne scappano verso le montagne. L’esercito turco ha lasciato nel loro villaggio solo morti e rovine, una delle tante prove del genocidio armeno avvenuto tra il 1915 e il 1922.
Le fuggiasche hanno perso tutto, ma riescono a portare in salvo l’antico e prezioso libro di Mush, un testo liturgico conservato da sette secoli in un monastero. È alto quasi un metro e pesa poco meno di trenta chili. È il prezioso brandello di memoria di un popolo massacrato e disperso.
Il libro racchiude omelie composte in un monastero armeno intorno al 1200. È un testo considerato sacro, venerato per la sua forza spirituale, dotato di poteri taumaturgici, testimone della tradizione di fede di un intero popolo.
Le due donne trovano il manoscritto mentre fuggono dal loro villaggio e decidono di salvarlo: rinunciano a portare con sé provviste, vestiti e denaro e si fanno carico del libro. A motivo del peso lo dividono a metà e affrontano la fuga sulle montagne promettendosi che, comunque andranno le cose, faranno giungere le parti del libro alla sede del patriarcato armeno. Il libro di Mush, trovato e ricomposto, è oggi custodito in una biblioteca di Yerevan, la capitale della Repubblica armena.
È suggestiva l’immagine di queste due donne semplici che, fuggendo alla morte in cerca di scampo, portano con sé il libro. Sono disperate: i loro cari sono stati brutalmente trucidati, il loro villaggio distrutto, sono disorientate e non sanno dove andare. Ci sarà per loro un futuro? E quale sarà? Quel libro diventa così un segno del cielo. Un segno di speranza. Le salverà? O saranno loro a salvare il libro e, simbolicamente, la storia e la tradizione spirituale del popolo armeno? Probabilmente non sanno leggere ma comprendono che quel pezzo della loro cultura è necessario al loro futuro e a quello del loro popolo. Stringono a sé il libro, sulle strade dell’esodo, perché non cercano solo scampo immediato ma guardano lontano, al domani della loro terra.
Il destino che è spesso toccato a comunità disperse e finite sotto il giogo dei più svariati dominatori ha reso indispensabile il possesso di un “libro”, di solito un testo sacro, da portare con sé come prezioso pegno salvifico. Una “casa di parole” per continuare a vivere e poter conservare la memoria religiosa e civile dopo le persecuzioni, i massacri e le umilianti rimozioni che la storia talvolta riserva. Quando si perde tutto, il libro diventa una casa e la biblioteca la casa del libro.
Talvolta, quando anche le biblioteche vengono distrutte, noi stessi possiamo diventare la biblioteca che consente ai libri di continuare a vivere.
Nel 1953 lo scrittore Ray Bradbury pubblica il romanzo di fantascienza Fahrenheit 451[10] in cui descrive una società distopica in cui leggere e possedere libri è considerato un reato e dove un apposito corpo dei vigili del fuoco è impegnato a bruciare ogni tipo di volume. Le informazioni scritte sono illegali, ad eccezione dei manuali tecnici o scolastici o dei giornali sportivi o umoristici, perché la società deve proteggersi dalle persone che potrebbero pensare.
Anche il protagonista, Guy Montag, appartiene alla “milizia del fuoco”, che appicca roghi alle case di chi nasconde libri. Sembra convinto della sua missione, ma l’incontro con un’anziana donna che preferisce bruciare nella sua casa anziché abbandonare i libri lo sconvolge. Inizia così a salvare alcuni volumi e a leggerli di nascosto. Denunciato dalla moglie e costretto a dar fuoco alla propria casa con il lanciafiamme, Montag ripara lungo il fiume, sulle cui rive incontra un gruppo di uomini fuggiti dalla società. Essi custodiscono il patrimonio letterario dell’umanità mandando a memoria i libri, senza conservarne copie, per non farsi scoprire. C’è chi sa recitare una parte dell’Ecclesiaste e chi l’Apocalisse, chi la Repubblica di Platone e chi il primo capitolo del Walden di Thoreau.
Quando si distruggono i libri e le biblioteche, gli uomini possono diventare libro e biblioteca e recuperare il valore sorgivo, primigenio della voce e del racconto.
Biblioteca sociale come spazio di cittadinanza
Nell’immaginario del passato la biblioteca era un luogo ad uso quasi esclusivo di studiosi e intellettuali; fortunatamente nel tempo è diventata un riferimento per un pubblico più vasto; infatti, oltre al proprio ruolo tradizionale, può rappresentare uno spazio aperto, polivalente, un antidoto contro la manipolazione, la solitudine, le difficoltà.
In biblioteca, si possono sperimentare altre strade, diverse dall’immaginario comune che vede questi luoghi semplicemente come spazi di consultazione o studio. Ad esempio, è possibile immaginare percorsi che dimostrino uno stretto legame tra libri, letture e immagini, in cui il piacere della lettura si possa moltiplicare e intersecare con altri percorsi multi-espressivi.
Non significa solo moltiplicare le attività da fare in biblioteca, ma cambiare completamente la filosofia che è alla base di luoghi come questo. Un’operazione fondamentale visti i dati sul numero di lettori, drasticamente in calo negli ultimi anni, contestualmente alla crescita del tasso di analfabetismo dei cittadini. In molti casi, purtroppo, le biblioteche non sono considerate un servizio essenziale, semmai superato, visto anche il cambiamento dei nuovi mezzi di comunicazione e l’avvento della rete.
In questo contesto, le biblioteche devono saper declinare nuovamente, e con intelligenza, la propria funzione, per contribuire al miglioramento della qualità della vita dei cittadini, integrando il servizio biblioteconomico con proposte sociali ed educative che prevedono la creazione di reti territoriali.
La crisi attuale, economica, culturale e politica, ha fatto aumentare i fenomeni di instabilità sociale (dal lavoro, all’inevitabile crescita della soglia di povertà), che portano alla formazione di casi di violenza, difficoltà relazionali, senso di insicurezza, diffidenza, isolamento e razzismo, a cui i servizi e le amministrazioni locali non riescono a far fronte. C’è un distanziamento sempre più marcato fra i cittadini e le istituzioni, che non hanno gli strumenti, economici, organizzativi o culturali, per colmare le esigenze e le mancanze delle persone: carenza di contatto umano (in questo periodo accentuato dalla pandemia mondiale), isolamento, mancanza di legami significativi nella comunità.
La situazione si traduce in un indebolimento del tessuto sociale, ad eccezione di qualche piccolo centro in cui resistono senso di radicamento e appartenenza.
Una biblioteca può diventare, pertanto, un luogo di incontro a servizio dei cittadini, per la promozione del benessere solo in prima analisi legata alla consultazione e al prestito di libri; possono essere luoghi nei quali “il testo, e la cultura che rappresenta, possono sprigionare tutto il loro potenziale al di là del mero valore ricreativo della lettura; luoghi dove l’offerta educativa non si ferma alla cura del gioco, all’aiuto nei compiti, all’arricchire il tempo libero, alla valorizzazione dell’impegno sociale, ma sa integrarsi nella cura delle famiglie, nella rete e nella conoscenza del territorio e delle sue possibilità, nell’essere un indispensabile presidio della comunità, un calmieratore di ansie, un canalizzatore di energie”.[11] Infatti la cultura, nella sua accezione più generale e nel particolare quella legata al mondo del libro, ha a che fare con la socialità.
Lo psicologo Massimiliano Anzivino[12] propone delle linee guida per quelle che possono essere considerate delle “biblioteche sociali”:
- Sensibilità dell’amministrazione che investe e si occupa di sostenere tali progetti, capace di considerare il valore sociale di esperienze di questo tipo;
- Multiprofessionalità del personale: attenzione nella selezione dello staff, che deve essere costituito da multiprofessionalità: bibliotecari, educatori, psicologi, ludotecari, animatori, volontari; è fondamentale anche la formazione nella gestione dei rapporti, l’accoglienza e l’approccio interculturale; in questo periodo, inoltro, esperti utilizzatori della rete e del web, per inventarsi percorsi digitali che vadano a colmare le distanze dovute all’emergenza sanitaria;
- Manutenzione degli spazi: cura degli spazi e dei supporti utilizzati dagli utenti, perché la cura del dettaglio spesso determina la qualità del servizio proposto, sia nella presentazione che nell’esperienza di contatto umano;
- Elasticità di una struttura aperta, che somiglia a quella dell’operatore di strada, attraverso la capacità di instaurare relazioni dirette, accoglienti, ponendo sempre l’attenzione alle sollecitazioni del territorio (un esempio importante è quello degli orari di apertura di un servizio di questo tipo, che dovrebbe andare in contro alle esigenze degli utenti);
- Incontro con utenze di diverse età, perché favorisce il contatto tra le generazioni e dà l’esempio di vita comunitaria, oltre ad essere un importante strumento di sensibilizzazione;
- Centralità della relazione: un’attenzione particolare alle persone, alla creazione di rapporti significativi, la condivisione di esperienze in modo continuativo, creando legami che favoriscano la comprensione dei bisogni dei cittadini.
- L’idea di un cittadino partecipe, non un semplice “utilizzatore” di servizi, che aderisce attivamente alla costruzione di un progetto comune, per diffondere la cultura della cittadinanza.
La necessità fondamentale rimane in ogni caso la costruzione di una continuità di relazioni che “diventa il più forte elemento di prevenzione rispetto a tutti quei problemi che oggi preoccupano cittadini e amministrazioni pubbliche: il vandalismo, la violenza, l’isolamento, i conflitti, i comportamenti a rischio, il degrado dei beni pubblici”.[13]
Una biblioteca di questo tipo, quindi, diventa non solo una risposta concreta alle necessità di un territorio e dei propri cittadini, ma soprattutto un investimento sul futuro, in termini umani e sociali.
L’apertura al territorio e ai servizi educativi, sociali, assistenziali, sanitari è fondamentale per la creazione di un complesso lavoro di rete, nell’impegno comune di un benessere dei cittadini e della comunità: la biblioteca diventa così uno spazio collettivo e condiviso, lontano sia dalle mura private di casa, ma anche da quello troppo istituzionale della scuola o del servizio sociale.
“La biblioteca si rivela un luogo pubblico con grandi opportunità di relazione, in quanto permette l’incontro di persone di estrazioni assai diverse. Garantisce l’ingresso a tutti, attraverso un’accoglienza leggera ed elastica, senza implicare impegni o etichette”[14].
di Francesca Mara Tosolini Santelli (educatrice e referente della Biblioteca dell’Istituto Universitario Progetto Uomo)
[1] Una curiosità: “Tra i tentativi del genere va registrato, piuttosto per la singolarità che per il successo, quello d’impiegare l’amianto (…) L’idea può essere fatta risalire, storicamente, a un prelato romano e letterato arcade, monsignor Giovanni Ciampini, che nel 1691 stampò a Roma (…) una sua dissertazione epistolare De incombustibili lino, sive lapide amianto. Nella quale è accennata la possibilità di fabbricare carta con questa materia”. Nello Vian, Il cardinale che sapeva leggere, Storie di libri e scritture, Marietti 1820, Genova, 2017, pag. 95.
[2] Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pag. 32.
[3] Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002, pag. 124.
[4] Massimo Recalcati, Il libro abbatte i muri, in la Repubblica, 16 luglio 2018.
[5] Luciano Canfora, Libro e libertà, Laterza, Roma-Bari, 2005, pag. 78.
[6] Federico García Lorca, Libri, Libri! Discorso al paese di Fuente Vaqueros, Edizioni estemporanee, Roma, 2014, pag. 23.
[7] Cfr. Roberto Alessandrini, “Salvare i libri e gli uomini”, relazione al convegno ABEI, Roma, 16 giugno 2018.
[8] Questa vicenda viene raccontata nel libro di Michaeel Najeeb con Romain Gubert Sauver les livres et les hommes, Paris, Grasset, 2017.
[9] Antonia Arslan, Il libro di Mush, Milano, Skira, 2012.
[10] Ray Bradbury,Fahrenheit 451, Milano, Mondadori, 2016.
[11] Massimiliano Anzivino, Per una biblioteca del cittadino partecipe, in Animazione sociale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, ottobre 2013.
[12] Psicologo, consulente e formatore per Comuni, scuole ed enti del terzo settore, tramite la cooperativa Solidarietà 90 di Reggio Emilia collabora con il Centro polivalente Pasolini di Montechiarugolo.
[13] Massimiliano Anzivino, Per una biblioteca del cittadino partecipe, in Animazione sociale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, ottobre 2013.
[14] Massimiliano Anzivino, Francesco Caligaris, La biblioteca, fertile spazio di cittadinanza, in Animazione sociale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 2014.