Una sentenza incomprensibile

Capodanno: è d’uso fare qualche bilancio, ricordare gli avvenimenti più significativi. Si tende generalmente a celebrare, ai mass media piacciono molto le vittorie sportive: panettonem et circenses, si dovrebbe dire.

Ci sono, tuttavia, anche gli avvenimenti dolorosi. Non vorremmo ricordarli, in questi giorni di festa, ma non possiamo dimenticare che quest’anno sono morti oltre 5.000 migranti nelle rotte attraverso i molteplici confini del mondo: il canale della Manica, il Mediterraneo, il confine bielorusso, il Chiapas, lo Yemen. Proprio a Natale il mar Egeo ha inghiottito un numero imprecisato di migranti, che affrontavano il mare su due precari barconi. Dal 2 ottobre centinaia di migranti sono accampati di fronte al Community Day Center (CDC) dell’Unhcr (l’agenzia dell’ONU per i rifugiati) a Tripoli in Libia (www.refugeesinlibya.org è il loro sito, per chi volesse documentarsi).

Mentre l’umanità è percorsa da questa tragedia, un tribunale della Repubblica Italiana ha condannato a una pena durissima, degna di un criminale incallito, una delle poche persone che hanno tentato di aiutare alcuni dei sopravvissuti a questa strage.

Mi riferisco a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace.

Tra i suoi reati (presunti, siamo o no garantisti?) figurava il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Da questo è stato assolto. Anche un bambino capirebbe che Lucano non ha aiutato nessuno ad immigrare clandestinamente, si è limitato ad aiutare chi già era immigrato, giunto in Italia dopo un’odissea iniziata mesi o anni prima, dopo essere scampato ai ricatti e ai soprusi dei trafficanti, alla detenzione, alle violenze e alle torture in Libia, infine ai naufragi. Ha cercato di favorire un ricongiungimento (uno, non cento) che mi sembra cosa ben diversa, se le parole hanno ancora un significato, e che poi è previsto dalla legge.

Era accusato di concussione, ma il supposto concusso ha testimoniato che non era vero niente. Comunque l’ipotesi di reato era piuttosto strana, persino un po’ ridicola.

Ha usato soldi pubblici per restituire dignità a quelle persone ed ha fatto rinascere con gli immigrati un paese spopolato dall’emigrazione, e questo è vero.

Ma il modello Riace, ammirato in tutto il mondo, non può essere genuino, deve per forza essere un subdolo mezzo per delinquere, a quanto si legge nella sentenza.

Il dramma dell’immigrazione clandestina e la rinascita di Riace sembrano lontani mille miglia da questa sentenza di condanna, scritta evidentemente all’interno di stanze che non si affacciano sul mondo, stanze ben isolate dalla realtà esterna, del tutto separate dai fatti. I fatti dicono che Lucano non ha realizzato guadagni illeciti, ma non importa (“nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca”, scrivono i giudici), perché non ci si può fermare “a valutare questa condizione di mera apparenza”. I fatti, dunque, sono solo apparenza, la sostanza è qualcosa di diverso, secondo questa “perversa letteratura processuale” (La Repubblica, 21/12/2021). Mi sta bene che lo dica un filosofo, mi preoccupa assai che lo dica un magistrato, perché allora, ad essere coerenti, non c’è possibilità di difesa, ma a ben guardare non ci sono più neanche i reati. Oppure i reati non consistono in fatti, ma in intenzioni: ed è proprio ciò che sembra sostenere la sentenza. Lucano, in altre parole, restava povero perché era furbo, ma intendeva arricchirsi in futuro, sia economicamente, sia elettoralmente.

Credo che per la prima volta in Italia e forse nel mondo civilizzato sia stata comminata una condanna dopo un processo alle intenzioni. D’altronde, meglio prevenire che curare.

Ovviamente, non tutte le intenzioni si possono conoscere, “non essendovi alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale” ascrivibili a favore dell’imputato. Cioè: le cattive intenzioni sono evidenti, quelle buone no. Ma tutto dipende da cosa si intende per traccia. Talvolta le tracce sono nei fatti, e i fatti parlano esplicitamente del valore morale e sociale di quelle “intenzioni”. Ma, si sa, i fatti non contano, sono mera apparenza.

Ho avuto l’impressione che gli estensori delle motivazioni della sentenza si siano, anche loro, resi conto di qualche discrepanza nel loro discorso. Come si può dare valore giuridico all’intenzione (qualcosa di incerto e impalpabile) privilegiandola rispetto ai fatti? Allora la motivazione mette le mani avanti: “ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza”.

In altre parole, si sostiene, ci sono delle prove. Non si tratta di prove materiali, di fatti come mazzette di banconote, depositi bancari, società di comodo cui intestare i beni illecitamente acquisiti: le prove sono frasi captate nel corso di intercettazioni telefoniche. Da queste non emerge, se ho ben capito, la traccia di un passaggio di danaro o di altri beni. Emerge però l’intenzione di benefici futuri, e il quadro probatorio che ne deriva è, dicono i giudici, di elevata “conducenza”.

Come rileva Menconi su La Repubblica, questo vocabolo “non esiste nel nostro linguaggio e nei nostri vocabolari”. Ho fatto anch’io una piccola ricerca in rete, scoprendo che in effetti il Vocabolario Treccani non contiene questa parola – ha ragione Menconi – ma il termine esiste nell’Enciclopedia Treccani, pescato in uno scritto di argomento giuridico che così si esprime: “La strada percorsa sinora dalla giurisprudenza di stimare non suscettibile di cogente applicazione alla materia delle captazioni il canone di cui all’art. 192, co. 3, pur se fondata su un univoco dato testuale, ripropone la conducenzaprobatoria di massime d’esperienza ormai smentite dalla prassi giudiziaria”. (https://www.treccani.it/enciclopedia/indagini-preliminari-intercettazioni-telefoniche_%28Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto%29/)

Confesso di essere rimasto turbato dalla prosa del testo. Ma che cosa diamine vuol dire? Perché usare un linguaggio incomprensibile a chiunque sia dotato di normali intelligenza e cultura? Ho provato a capire meglio, leggendo un più ampio passaggio del ponderoso testo e alla fine, dopo non poca fatica, ne ho finalmente colto il senso, almeno credo. In sostanza si sostiene che l’intercettazione di un discorso tra due persone, che non contenga una precisa accusa, non può avere valore di prova: “il filtro dell’intercettazione telefonica o ambientale, quale atto d’indagine «a sorpresa», non offre alcuna apprezzabile certezza circa la veridicità e, spesso, circa la stessa verificabilità del narrato”. Tutto il contrario di quanto si sostiene nella motivazione della sentenza. Sempre se sono riuscito a capire questo gergo indegno della nostra bella lingua, che sembra essere usata da alcuni giuristi al puro scopo di intorbidare le acque: una tradizione antica, ben rappresentata dal personaggio manzoniano dell’Azzeccagarbugli.

Applicando le conclusioni dell’autorevole testo citato dalla Treccani, il fatto concreto che Lucano non si sia arricchito dovrebbe prevalere sulle risultanze delle intercettazioni di conversazioni, di dubbia veridicità e verificabilità. In conclusione, sembra che la sentenza vada contro la letteratura giuridica, oltre che contro il buon senso. Ma anche di questo non mi è dato avere certezza, tanto è fumoso il lessico degli Azzeccagarbugli.

Al di là della sostanza della condanna, che non mi sembra condivisibile, mi preoccupa assai la forma che, negando la possibilità di una univoca comprensione, nega, a mio avviso, il concetto stesso di giustizia. La giurisprudenza, secondo me, non può permettersi il lusso di essere incomprensibile, perché non è cosa per addetti ai lavori, ma cosa pubblica. E se deve essere comprensibile ai cittadini, non può usare una terminologia estranea ai vocabolari. Un principio giuridico fondamentale (conosciuto anche dai profani come me) è che la legge non ammette ignoranza: ma come posso non essere ignorante rispetto a concetti come la conducenza? come faccio a sapere che cosa è reato e che cosa non lo è, se la colpevolezza si basa su concetti così fumosi?

Si invoca sempre una cosiddetta “giustizia giusta”, che funzioni in tempi adeguati e garantisca, per quanto umanamente possibile, la certezza del diritto. Ma qui si celebra l’incertezza, la fumosità, la prolissità.

Sono disposto a scommettere che Lucano sarà assolto nei successivi gradi di giudizio perché il fatto non sussiste o che, al massimo, subirà una condanna irrisoria perché, ad onta di questa sentenza, sono evidenti e internazionalmente riconosciute le sue ottime intenzioni. Saranno allora più chiari il valore e il significato di questo splendido esempio di prosa giudiziaria.

di Cesare Pirozzi