Pearl Harbour in Terra Santa

Non tanto il dado è tratto, quanto il fatto è in atto. Mentre i cingoli dei tank israeliani entrano in queste ore direttamente a Gaza City, preceduti dal tappeto volante di bombe che oscura da giorni quel cielo, Bibi Netanyahu tenta goffamente di scaricare tutte le sue tragiche responsabilità sulle agenzie di intelligence nazionali. Soprattutto sullo Shin Bet, i servizi segreti per la sicurezza interna. Servizio distinto dal più noto Mossad, quello dedicato invece all’estero, pure se non è ancora chiaro cosa faceva invece quest’ultimo, se è vero che tutta la macabra macelleria antisemita operata da Hamas il 7 ottobre è stata da tempo programmata, ordinata e preparata dall’Iran, con ramificazioni – è stato affermato – che arrivano fino in Russia. Netanyahu si è poi scusato e ha ritirato la sua dichiarazione e un suo successivo post sui social, ma intanto questa vicenda della défaillance dei servizi segreti israeliani, giustamente celebrati come i più efficienti al mondo, resta avvolta nel fumo che sale dalla massa delle macerie nella Striscia di Gaza. Forse non può essere diversamente, per l’impellenza dello scontro, del fatto in atto, e magari solo dalle cronache del sottosuolo del futuro potremmo sperare di avere qualche bagliore di verità.

Una défaillance simile a quella che all’alba del 7 non ottobre, ma dicembre del 1941 sembra cogliere di sorpresa gli altrettanto potenti servizi segreti americani a Pearl Harbour, nell’ isola hawaiana di Oahu, distretto di Honolulu. Il Giappone – senza preventivamente e ufficialmente dichiarare guerra agli Usa – dal cielo e dal mare attacca e affonda la flotta navale americana di stanza in quella baia. Gli storici hanno successivamente avanzato ampi dubbi sulla vera consistenza di quella défaillance. Documenti alla mano hanno dimostrato che numerose e insistite, invece, erano state le segnalazioni sull’imminenza della massiccia operazione militare nipponica. Il vero fatto in atto, però, è che gli Stati Uniti d’America interrompono immediatamente la loro neutralità bellica e mettono con tutti i crismi politici e militari navi, aerei e scarponi direttamente dentro la Seconda Guerra Mondiale, scatenando al contempo una virulenta campagna antinipponica, che porta anche all’internamento dei cittadini giapponesi presenti al momento sul loro territorio. Non solo e non tanto questo, però. L’attacco a Pearl Harbour è scatenato e guidato via radio in ogni sua fase dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto a bordo della Nagato, nave da combattimento alla fonda nel porto di Hiroshima. Forse non tanto casualmente la prima bomba atomica della storia umana è sganciata dagli Usa proprio su quella città il 6 agosto 1945. Biden, oltre al consiglio di non ripetere i loro errori dopo l’11 settembre 2001, dovrebbe consigliare a Netanyahu di non replicarne uno che somigli – soprattutto in termini di portata geo politica e bellica – a quello.

Va ricordato, infatti, non tanto lateralmente, che ciò che consente alla Russia di aggredire l’Ucraina è proprio un arsenale atomico alle spalle costituito da circa 6.300 ordigni nucleari, contro i 5.500 degli Usa. Anche Israele – seppure non ufficializzate – dispone di circa 90 bombe atomiche, mentre all’Iran le maggiori potenze mondiali hanno giustamente inibito fino a oggi di costruirne. Tale superiorità strategica, però, può consentire a Israele di bordeggiare il margine, contribuendo ad aumentare ancora di più scottante l’attualità del rischio atomico oggi nel mondo. Bordeggiare, spadroneggiare significa concretamente radere al suolo quanti più edifici, infanti, adulti e anziani di Gaza, proprio in quanto palestinesi, ossia potenziali terroristi di ieri, oggi e domani, dato che i veri capi e menti strategiche criminali di Hamas si trovano intanto del tutto al sicuro lontani dalla Striscia, in attesa che si plachi la irrefrenabile e falcidiante furia del fatto in atto. Significa, però, anche scatenare i coloni israeliani in Cisgiordania, i quali – armi pesanti a tracolla e con il sostegno di polizia ed esercito – hanno immediatamente accentuato minacce e aggressioni contro contadini e legittimi proprietari di case palestinesi, al fine raccapricciante di razziarne terre e abitazioni. Perché si sa: in guerra si mette brutalmente in atto il diritto di fatto al saccheggio e al bottino bellico. Soprattutto quando l’obiettivo politico non è la ricerca di una soluzione politica stabile, ma quello di uno schiacciamento militare sulla cui scorta sono poi dettare, ossia imporre le condizioni politiche della soluzione. Ma più indeboliti saranno i palestinesi in quanto tali, più la loro rappresentanza sarà inesorabilmente strumentalizzata ai loro fini strategici e propagandistici da entità statali e militari alle quali tutto fa comodo meno che un’autentica stabilizzazione di quella tellurica frontiera. Anche le grandi manifestazioni – partecipate pure da ebrei – in molte città del mondo per una soluzione di pace che scongiuri la distruzione di Gaza, infatti, sono strumentalizzate per rinfocolare un antisemitismo purtroppo sempre mai sopito e sempre strisciante a fior di pelle nelle nostre società. E questo non può che sortire l’effetto di un ulteriore letale avvitamento della crisi su sé stessa. 

Inutile, dunque, farsi illusioni quando a esprimersi è inesorabilmente solo la sordità del fatto armato in atto. Si può unicamente testimoniare, ammonire sulle pietre del sottosuolo prossimo venturo che si stanno scolpendo con bombe, mitragliatrici e punte di pugnali sgozzatori. Sottosuolo dal quale torneranno a fiorire i prati, o inferno rigoglioso di altre luttuose croci, mezze lune e stelle in superfice? Vano persino rispondere.

Riccardo Tavani

 

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