Dostoevskij: mai detective tanto tragicamente grande
Nelle opere di qualsiasi genere artistico i nomi non vengono – consciamente o inconsciamente – mai messi a caso dai loro autori. Filippo Timi dà qui molto più del solo corpo a un poliziotto che si chiama Enzo Vitello. Avrebbe potuto chiamarsi Vitiello. No, Vitello. La lista dei rimandi arcaici, biblici, psicanalitici al vitello è talmente lunga e intrecciata da poterci scrivere sopra un trattato. In ogni caso, essa risuona, volenti o nolenti, abissalmente, in noi spettatori. Tanto da offrirci una cifra esistenziale del personaggio ancora prima che la sua vicenda si cominci a dipanare. Ad esempio, il vitello d’oro della Bibbia; o quello sacrificale, grasso, da ammazzare nella parabola evangelica del figliol prodigo. D’altronde, già la prima scena lascia pochi dubbi sulla prossimità di questo Vitello alla soglia del macello.
E il nome di battesimo poi: Enzo. Si sa, è diminutivo di Vincenzo, ossia che vince. Un bel contrasto. Destinato a vincere, però già bell’e pronto per essere macellato. Tanta storia del cinema ci narra di grandi personaggi che vincono proprio nella loro sconfitta. E a proposito di richiami cinematografici, la critica ha scomodato precedenti come True Detective. In verità, però, se ne potrebbero scomodare molti altri, come anche Il cattivo tenente, del 1992, di Abel Ferrara. In realtà qualsiasi autore rielabora e sintetizza a modo suo, poeticamente, esistenzialmente tutta la precedente stratificazione artistica di cui si è nutrito durante tutta la sua vita, dall’infanzia, all’adolescenza, alla sua maturità e anche vecchiaia. L’originalità di un’opera sta appunto nel modo in cui tutta questa immane, e persino inconscia, dimenticata, sepolta sedimentazione riemerge a dirci qualcosa di inedito.
Dostoevskij, come serie tv in sei episodi si vedrà sulla piattaforma Sky, e in streaming in Now. Nel frattempo, è stato presentato alla recente 74° edizione del Festival di Berlino, fuori concorso, ed è stato già programmato nelle sale cinematografiche come film di quattro ore e quaranta minuti, diviso in due metà da vedere distintamente, o anche una di fila all’altra con un intervallo di circa mezz’ora. Ormai, però, rimane visibile in poche sale cittadine, come a Roma, dove è ancora soltanto al Cinema Giulio Cesare. Lo scriviamo, perché, senza togliere niente al piccolo schermo, è decisamente preferibile, quello grande. Soprattutto in questo caso, la tessitura delle immagini e la stoffa cinematografica di tutta l’opera, raffinata e cruda insieme, la percepiamo, anzi ci entra dentro imparagonabilmente meglio sul grande schermo 4K di una sala.
Enzo Vitello è il capo operativo di una squadra di polizia anti-crimine che dà la caccia a un assassino seriale, cui hanno affibbiato il nomignolo di Dostoevskij, il noto scrittore russo autori di diversi romanzi con tanto sangue. Chiamano così il killer, perché, vicino a ogni cadavere che ha brutalmente scannato, lascia sempre una non brevissima lettera scritta a mano e in caratteri a stampatello. Il tema ossessivo delle missive è sempre lo stesso: il vizio assurdo, l’inutilità del vivere, di cui lui libera eroicamente le vittime prescelte. Il dirigente istituzionale della squadra è Antonio Bonolo, più che amico di Vitello, interpretato in maniera mai scontata da Federico Vanni. Vice capo operativo, appena arrivato, detestato da Vitello, è Fabio Bonocore, nell’essenziale scarnezza resa da Gabriel Montesi.
Ma dicevamo di Filippo Timi che dà ben più del corpo, non al solo suo personaggio, ma all’intera opera. E in questo senso ne diventa in parte anche coautore. Perché se è vero che i due registi gli offrono una possibilità unica di prova attoriale, è altrettanto innegabile che tutta la vicenda prende consistenza tridimensionale e tri-esistenziale, proprio grazie allo stato di grazia che s’irraggia, in modo sacro e infernale insieme, dallo schermo epidermico, vocale, facciale, oculare di Filippo Timi. Lo sfondo esistenziale, infatti, è quello che emerge da ogni singola inquadratura e dall’intero sistema d’immagine di tutto il film. Anzi, potremmo dire che la vicenda criminale, è solo un unico grande espediente, pretesto avvincente – un McGuffin, come lo chiamava Hitchcock – per parlarci del, o di un, qualsiasi senso dell’esistenza nella situazione di crisi anche drammatica che l’umano, l’ambiente naturale stanno nell’attualità attraversando.
Lo squallore, i frantumi, i rottami delle cose, dei cibi nel polistirolo, degli ambienti, non sono soltanto un’ostentazione scenico-estetica per aumentare l’effetto caos, disordine, disgregazione, rompicapo diabolico, e l’atmosfera, la suspence criminale. È, al contrario, la resa realistica, lo scoperchiare incontrovertibile di una cifra che ormai da tempo segna, crepandolo, il sottosuolo della realtà umana e naturale contemporanea. Un male che nessun ricorso nuovi tecno-farmaci – di cui Vitello è a rota – può più curare, perché ormai con c’è proprio più nessuna cura, nessun lenimento, tantomeno riscatto a quell’orrore che chiamiamo vita. Se non la morte, direbbero all’unisono le interiorità, anzi le interiora, videate in rettoscopia, dell’assassino e dello sbirro. Quest’ultimo non solo non riesce più a guarire il rapporto sanguinante con la persona più cara che le resta al mondo, sua figlia Ambra, nella rara sensibilità interpretativa disperatamente che ne rende Carlotta Gamba. Ma, anzi, l’aggrava a ogni nuovo giro di vite, incontro del loro micidiale, viscerale amore nell’inaggirabile impossibilità di amarsi.
La scena finale ci offre un’immagine, una luce e l’acqua di un fiume più limpide, trasparenti, anche se i due personaggi in scena ci dicono che esse risplendono e scorrono sopra un introvabile, pesante cadavere annegato. I veri discorsi, i veri concetti del cinema sono le immagini, come dice Gilles Deleuze, non tanto le cose dette e contraddette nei dialoghi. I Fratelli D’Innocenzo lasciano così questi tondini non di ferro, ma di luce aperti sul tetto illuminato del finale. Forse per riprendere da qui la loro sfracellata e aurea cinemazione.
Riccardo Tavani