Fremont, più tenue la luce più vero il dramma
È possibile affrontare un drammatico collasso storico attraverso un film che inscena tenue voci e luci in bianco e nero? E farlo senza sminuire il dramma e, anzi, in un certo senso esaltandolo? E quello che tenta il regista anglo-iraniano Babak Jalali, con la collaborazione alla scrittura dell’italiana Carolina Cavalli. La risposta è decisamente positiva.
Il drammatico, repentino collasso politico è quello avvenuto nel 2021, con il ritiro di americani e alleati occidentali, dall’Afganistan, e il ritorno degli ancora più incarogniti Talebani. Una massa di persone che aveva prestato servizio in tutti i campi per loro, e che tenta di fuggire disperatamente per non subire la vendetta della restaurata dittatura teocratica. Molte prese a bordo degli aerei, ma molte di più lasciate sul cemento degli aeroporti e delle loro piste. E che fine hanno fatto quelli salvati?
Da qui parte il film, anche perché la brava interprete protagonista, Anaita Wali Zada, era davvero un’attrice della Tv afgana, costretta a fuggire, per riparare in America. Nel film interpreta Donya, una ragazza che faceva l’interprete a Kabul. Ora, è in California, e lavora a infilare bigliettini dentro i famosi biscotti della fortuna. Il piccolo laboratorio di produzione e confezionamento dei biscottini appartiene a un gentile e saggio cinese di mezz’età, ed è stato aperto molti anni prima da suo padre. Si trova alla periferia di San Francisco, ma Donya vive nella vicina, piccola località di Fremont, Deve così viaggiare tutti i giorni per raggiungere quel laboratorio fatto di poche dipendenti. A Fremont vivono altri rifugiati afgani. Uno psicanalista della zona si occupa dei postumi che colpiscono molti di loro. Donya sembra non avere problemi di questo tipo, solo che non riesce a dormire bene la notte. Così finisce per andare anche lei da questo psicoterapeuta, in vero molto originale. Rientrata a casa la ragazza mangia la frugale cena che le prepara un un vecchio afgano, insieme al quale guarda una serie televisiva di cui non capisce niente, perché iniziata molte stagioni prima.
Tutto il film, dunque, sono delle brevi, tenui trance de vie, un po’ alla Kaurismaki, girate in bianco e nero e a macchina da presa ferma, tra il laboratorio, la casa, lo studio dello psicanalista, solo con qualche minima, seppur significativa variazione nel tran tran quotidiano. Tra queste un inaspettato, quanto repentino cambio di mansioni di Donya nel laboratorio.
Eppure, è proprio questa tenuità di racconto e di messinscena cinematografica a farci sentire con più forza la vertigine del dramma vissuto da questa piccola comunità afgana di Fremont, la cui vera portata il film tiene sempre fuori dello schermo. La si intuisce, infatti, solo da piccoli gesti, allusioni, sguardi, silenzi, laconiche risposte al già di per sé laconico psicoterapeuta.
Il nero sfuma nel grigio pallido, le onde psicologiche interiori nel mare piatto delle minime consuetudini quotidiane. Senza slanci, pur nella solidarietà femminile al lavoro, la pacatezza del padrone cinese, l’affetto più implicito che esplicitato tra rifugiati. Anche se Donya, a un certo punto, tenta di gettare un po’ di scompiglio in questo mare più della staticità che della tranquillità, solo parzialmente riuscendovi.
E la luce di un amore per una così intelligente e bella ragazza afgana? La sua migliore amica-collega la spinge verso incontri sentimentali incogniti. Regista e sceneggiatrice, invece, intessono e centellinano un finale a sorpresa, che fa compiere un salto alla linea perfettamente sobria del racconto, esaltando la vera essenza del profumo stilistico prima tenuamente soffuso. Anche questo, per contrasto, ci fa percepire meglio la drammatica linea di confine su quel baratro appena fuggito.
Riccardo Tavani