Vivere per l’Italia

Mentre gli sbarchi dei migranti continuano e le navi delle ONG vengono fermate nei nostri porti con vari pretesti per impedir loro di soccorrere i naufraghi (e non importa se a costo qualche morto in più), il ministro Tajani si è accorto che si potrebbe pensare a uno ius scholae per dare la cittadinanza a qualcuno in più di quegli italiani che qui sono nati, ma hanno lo stigma di esser figli di genitori stranieri.

Gli ha fatto eco un altro ministro, Lollobrigida, che ha inventato lì per lì lo ius amoris, quello che secondo la sua ignoranza vigeva ai tempi dell’Impero romano.

Anche Vannacci, pur non essendo ministro, ha  voluto dire la sua: la cittadinanza bisogna meritarsela, si deve esser pronti a morire per la patria.

Parafrasando Flaiano, dobbiamo riconoscere che la situazione è grave, ma non è seria.

Non voglio infierire contro il nostro ex cognato d’Italia riguardo alla sua scarsa conoscenza della storia romana. Né sul problema dell’abbandono scolastico di larghe percentuali di figli di migranti, di cui Tajani non sembra essere consapevole, ma che certo non è una loro libera scelta.

Ma forse vale la pena ricordare che un presidente degli Stati Uniti d’America e l’attuale vicepresidente e candidata alla presidenza sono cittadini americani per ius soli. In quello strano Paese l’unica condizione per poter essere eletti alla massima carica dello Stato federale è esservi nati, indipendentemente dalla provenienza dei genitori. A me sembra un arricchimento, più che un problema. D’altronde la nascita non è l’unico criterio per diventare cittadini USA: può esser sufficiente risiedervi continuativamente per almeno 5 anni, purché si dimostri una buona condotta morale e si superi un esame di lingua e cultura americana. Eppure gli USA non sono certo una democrazia ideale, né hanno una storia irreprensibile.

Vorrei inoltre ricordare un altro precedente storico romano, molto più recente dell’editto di Caracalla che concedeva la cittadinanza a tutti i popoli dell’impero. Lo so, ne ho già parlato, ma forse vale la pena ricordare di nuovo che cosa prevedesse la Costituzione della Repubblica Romana del 1849. 

All’articolo 1 stabiliva che sono cittadini della Repubblica “gli stranieri col domicilio di dieci anni”, oltre agli originari di quel territorio e agli “italiani col domicilio di sei mesi”.

Ma erano pazzi? Credo di no, ma se lo Stato giustamente pretende di tassare chi risiede nel suo territorio e di esercitare su di lui le proprie leggi (cosa che lo Stato italiano fa), perché non considerarlo cittadino a tutti gli effetti? O si pensa che ci sia qualcosa di speciale nel discendere da altri italiani? Ci si è dimenticati di tutti i migranti italiani che ora sono cittadini di altri Paesi? e che noi italiani siamo un miscuglio di provenienze disparate, stratificatesi in millenni di storia?

Se voglio ricordare ancora, a costo di essere noioso, quella Costituzione è anche perché fu emanata da un gruppo di patrioti, molti dei quali testimoniarono con la vita il loro amore per l’Italia. Ora, mi pare che il patriottismo sia tornato di moda nella nostra politica e l’amore per l’Italia sia diventato un vero e proprio must: allora perché non imitarli, quei patrioti?

Temo, ahimè, di conoscerne la ragione. Ecco, infatti, come intendevano il patriottismo quei patrioti lì: “La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana” (punto IV dei Principi Fondamentali). Certo, se uno è un po’ nazionalista (oggi si dice “sovranista”, ma è la stessa cosa) difficilmente può condividere i principi di quella Costituzione.

Giacché ci siamo, guardate che cosa pensavano delle autonomie più o meno differenziate: “La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello stato è la norma del riparto territoriale della repubblica” (punto VI). Beh… anche qui ci sarebbe da imparare! Sarà vero che Lollobrigida ha saltato qualche lezione di storia, ma anche Calderoli ne ha saltate parecchie!

Riguardo alle pretese di Vannacci sull’esser disposti a morire per la patria, mi è tornato in mente un episodio di quando frequentavo la scuola media. Durante una lezione di storia riguardante il Risorgimento e i patrioti che sacrificarono la vita per un’Italia che ancora non esisteva, la professoressa ci chiese: “ma voi, sareste disposti a morire per la patria?” Restammo tutti interdetti e un po’ incerti, ma uno di noi si alzò e disse: “non so se sarei disposto a morire, ma sono disposto a vivere per l’Italia”. Eppure quel compagno di classe era italiano da almeno sette generazioni! Ma forse proprio questo ci manca: voler vivere per il nostro Paese, magari con più buon senso e meno inutile retorica di tanti nostri politici.

Cesare Pirozzi

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