SANT’AGOSTINO OGGI
Mi sento visceralmente connesso e devoto di sant’Agostino almeno dal 28 agosto 2008 quando, nella chiesa parrocchiale di Nago, in Trentino, ebbi, proprio nel giorno del Santo di Ippona, un’esperienza di conversione e guarigione psichica sconvolgente, capace di riorientare radicalmente la mia intera esistenza.
Parliamoci chiaro: dopo Gesù e San Paolo, Sant’Agostino è stato probabilmente la personalità più decisiva per la cultura cristiana e dunque per l’intera civiltà occidentale.
Agostino è Nostro.
Agostino è il nostro sangue, ci riguarda, ci interroga, ci respinge, ci impressiona, ci condanna e ci eleva con una potenza di linguaggio e di pensiero sconvolgente e assoluta.
Fare i conti con Agostino significa portare alla luce e iniziare a risolvere il rimosso, in Occidente, di due millenni di cultura cattolica cristiana con le sue enormi luci e le sue allucinanti oscurità.
“Agostino – ha detto Gaetano Lettieri, tra i maggiori esperti mondiali del pensiero dell’ipponate – è al contempo il vertice luminoso del pensiero cristiano e il suo punto critico di rottura, il suo punto di non ritorno, di inabissamento, di deflagrazione”.
Pensare Agostino mi porta inevitabilmente a risentire nel mio intimo le voci forti e calorose dei miei due primi maestri dell’adolescenza, due figure paterne essenziali per la mia crescita e la maturazione della mia vocazione umana, poetica e cristiana: il mio professore di lettere al liceo Stellino Pedrollo, e il fondatore di Italia Solidale Mondo Solidale p. Angelo Benolli.
Pedrollo diceva che Agostino gli aveva insegnato che l’unica realtà essenziale di Dio non erano i dogmi umani per definirlo, che sono provvisori, ma l’Amore, e citava il De Trinitate dove il vescovo di Ippona dice che se Dio è Amore è anche vero il contrario: che l’Amore è Dio.
L’Amore è Dio: riorientare l’intera esperienza cristiana sul far comprendere e vivere agli umani questa realtà è stata la sfida di tutta la vita di Papa Ratzinger, che pensava che su questo punto essenziale si sarebbe giocato il destino del cristianesimo e del suo rapporto con la ragione umana lungo il prossimo millennio.
Padre Angelo diceva che si può leggere Sant’Agostino a partire dal punto fondamentale della ricerca della vera Felicità.
Agostino l’aveva cercata fuori di sé, e tutta la sua vita era stata un continuo ritornare e poi gravitare attorno a quel luogo senza luogo, più interiore del Centro dell’Anima, entro il quale la Grazia gli si era manifestata e l’aveva portato a intuire che l’unica felicità possibile è quella nel seno del Padre, perché: “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”.
In uno dei nostri ultimi colloqui prima che morisse, con p. Angelo leggemmo un passo delle Confessioni. Ricordo che, quando glielo lessi in traduzione italiana, mi guardò sembrandomi quasi offeso, come a dire “pensi davvero sia ridotto tanto male?”.
Da sacerdote classe 1931, divenuto Oblato di Maria Vergine prima del Vaticano II, nel marzo del 59, padre Angelo era familiare con il testo originale delle Confessioni, con il latino di Sant’Agostino.
Rilessi il passo in latino e lui mi disse di soffermarci su una parola, che ancora ricordo: “Precordium”, che letteralmente significa “prima del Cuore”.
“Che cosa c’è prima del cuore?” Mi chiese padre Angelo sornione, con il suo tipico buonumore che non aveva perso neanche con la malattia.
Agostino, mi disse padre Angelo in quell’occasione, aveva portato alla luce la realtà dell’inconscio quasi duemila anni prima Freud e molto meglio di lui, perché se per Freud l’inconscio non era niente altro che una realtà oscura, fatta di pulsioni e di istinti ciechi, Agostino aveva sperimentato sulla pelle la consumazione dell’intero paradigma antropologico della cultura greco-romana classica, ed aveva compreso che l’io umano è in verità una piccola lucerna sostenuta dalla mano dell’Abisso di Ignoto che è la Grazia di Dio.
Agostino, lo sappiamo, non è stato soltanto la sua luce. L’ombra gigantesca di Agostino ha avuto un prezzo altissimo da pagare che stiamo ancora scontando come civiltà occidentale.
La sua eccessiva, estrema sessuofobia, che arriva a vedere come perverso persino un bambino che sugge latte dal seno della madre; la sua allucinante visione del peccato originale e dell’umanità come massa dannata; la sua incomprensibile torsione verso un’inspiegabile, terrificante, spietata doppia predestinazione dove l’ormai anziano vescovo d’Ippona, in scritti violentissimi e respingenti, aveva opposto contro Pelagio una visione del libero arbitrio umano come del tutto dipendente da un Dono di Grazia gratuito che, tuttavia, nei suoi piani imperscrutabili e incomprensibili Dio riserverebbe solo a una minoranza tra gli umani, predestinando tutti gli altri all’eternità dello Stagno di Fuoco. Queste sono solo alcune tra le ombre più problematiche che ci arrivano dal Vescovo di Ippona, con cui, come Europa e come Occidente, dobbiamo ancora terapeuticamente fare i conti.
Ma che cosa dice Agostino proprio a noi? Proprio a noi, qui, oggi, umani e cristiani del 2024?
Credo che il testo decisivo per tentare almeno di abbozzare una risposta sia il De Civitate Dei.
Sono impressionanti le similitudini tra il nostro tempo e quel V secolo d. C. in cui Agostino scrisse i 22 libri di questo suo capolavoro.
Oggi, come allora, crolla un’era, e di fronte l’umanità non ha che l’ignoto che ancora non ci mostra che pallidi accenni del futuro che dovrà venire.
Guerre, polarizzazioni spietate, un impero che cade, migrazioni di massa capaci di dar vita letteralmente a popoli nuovi, una religione cadente che si sclerotizza e viene spazzata via dal tempo e della storia con tutti i vecchi fasti della civiltà che l’aveva originata.
Agostino scrive a cavallo tra due ere, e lo sa. Sa benissimo che il fragile Impero d’Occidente non sopravviverà che qualche altro decennio, ed è perfettamente consapevole che l’intera forma di umanità dell’antichità greco romana sta agonizzando in una crisi terminale.
Agostino, nel mezzo di questa tempesta, scrive il De Civitate Dei, e si rende perfettamente conto che la Religione, sia civico-statuale, che mitica, che naturalista-filosofica, non è più sufficiente a far fare all’ umanità quell’unico salto di qualità capace di aprirle le porte della Salvezza: quel passaggio dall’Amor Sui ego-centrato all’Amor Dei che, guadagnato nell’interiorità del Cuore per dono della Grazia, solo sarà capace di informare la storia di una nuova Civitas, una Città di Dio, una Civiltà capace di esprimere sulla terra una inedita forma divino-umana di umanità più integrata, relazionale, cristica, dell’Amore.
La testimonianza di Agostino non può non risuonare come un tuono tremendo alle nostre orecchie di cristiani e umani di questo tempo.
Un tempo dove la crisi antropologica che viviamo è ancora più radicale di quella del V secolo, e che culminerà, ormai lo sappiamo, non nella formazione di nuovi regni, nuovi scenari politici, nuove nazioni umane, ma nell’instaurazione, già reale oggi, di quel Regno della Tecnica che analisti come Harari ci dicono essere già presente ed essere destinato, nel giro di pochi decenni, a un dominio assoluto, che rischierà, nei suoi aspetti d’ombra più inquietanti e in realtà già del tutto evidenti, di asservire totalmente l’umano ad un progetto di esistenza senza volto né senso di fronte al quale sarebbero forse preferibili le fiamme dell’Inferno.
Leggiamo, meditiamo, preghiamo, assorbiamo, ascoltiamo il Vescovo di Ippona. Dovrebbero leggerlo i giovani, dovrebbe essere raccontato ai ventenni di oggi, perché le sue parole sono profetiche e capaci di metterci di fronte, con la debordante potenza “wagneriana” del suo latino, all’unica vera sfida che abbiamo davanti come cristiani e umani nei prossimi mille anni: realizzare quel salto di umanità che solo potrà permetterci di restare umani e di Resistere, nell’era in cui i nostri Cesari umani non lo saranno più.
Questa, quella che parte dal Centro della
Psiche e poi è capace di creare Comunità e di trasformare la Storia, è l’Unica Via possibile, l’Unica Via rimasta per “mettere a terra” l’Indispensabile Rivoluzione con cui il Signore, irrigandola con la sua Grazia, ci salverà.
Giacomo Fagiolini