Sia le guerre e la realpolitik oscurano l’impegno delle donne oppresse in Afghanistan

Quanto coraggio serve a una donna per protestare in Afghanistan, proprio oggi, contro la politica misogina e liberticida dei talebani?

I talebani hanno “deliberatamente privato 1,4 milioni di ragazze afghane dell’istruzione secondaria da quando sono tornati al potere, esattamente tre anni fa, con il trionfante ingresso a Kabul delle milizie sciite e la fuga rocambolesca del personale americano dall’aeroporto (indelebili, le immagini della folla accalcata allo scalo della capitale, con alcuni disperati aggrappati agli aerei in decollo). Un governo – tornato al potere a venti anni esatti dalla cacciata imposta dall’esercito americano dopo la guerra d’invasione del Paese, conseguenza dell’11 settembre – che non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale.

I barbuti studenti coranici, che esattamente tre anni fa si riprendevano il potere approfittando del ritiro anticipato dei soldati della Nato, hanno inscenato parate e celebrazioni per il “Giorno della Vittoria”, perfino, com’è accaduto nell’ex base Usa di Bagram, pavoneggiandosi con le attrezzature militari abbandonate dagli americani, e costringendo migliaia di studenti e decine di presidi, tutti uomini, a omaggiare le autorità talebane.

Intanto, gruppetti di donne da diverse città rilanciavano sui social i video dei loro disperati picchetti contro l’apartheid di genere architettato in nome di una distorta lettura dei precetti dell’islam. Le attiviste dell’Afghanistan Powerful Women’s Movement, a rischio della propria vita, hanno agitato cartelli che chiedono al mondo di non lasciarle sole, di “liberare le donne afghane”, prigioniere nei loro burqa da quel 15 agosto 2021 che per loro è il “Giorno nero della storia”.

Ma il mondo ha altro a cui pensare, che alle donne afghane.

Anzi, ne è perfino infastidito: mostrare l’identico slogan (“Free Afghan Women”) su una mantellina è costata all’atleta olimpionica di break dance Manizha Talash l’espulsione dai Giochi, sebbene lei si trovasse a Parigi proprio in qualità di fuggiasca dal Paese che perseguita le donne. La punizione inflitta alla giovane Manizha non è il rispetto delle regole, come sostiene il Comitato olimpico internazionale, ma la cancellazione dell’auspicata fratellanza (anzi, in questo caso: sorellanza) universale rappresentata dallo sport.

Il mondo, dicevamo, ha altro a cui pensare e la realpolitik suggerisce che bisogna sacrificare molta verità e molta giustizia se si vuole continuare a dialogare, perfino con i tiranni, per evitare guai peggiori.

Accade con i talebani, perché non si può stare a guardare mentre si affacciano nuove fruttuose alleanze con Cina e Russia per lo sfruttamento delle miniere, e dunque si organizzano incontri sotto l’egida dell’Onu (Doha, 30 giugno) eliminando sia la presenza di donne sia la discussione dei dossier sul rispetto dei loro diritti. Cancellate.

Intanto il regime ha mano libera all’interno: così non desta il giusto scandalo il fatto che Narges Mohammadi, eroina della resistenza, premio Nobel per la pace 2023, nei giorni scorsi sia stata picchiata nel carcere di Evin, che non possa incontrare i suoi avvocati e che abbia iniziato uno sciopero della fame che ne mette a repentaglio la sopravvivenza.

Né suscita orrore così come dovrebbe la triste vicenda di Arezou Badri, 31enne madre di due bambini, che dal 22 luglio giace in un letto d’ospedale, paralizzata a causa dei colpi d’arma da fuoco che l’hanno bersagliata mentre guidava, a capo scoperto, la sua auto nel nord del Paese.

Assurdo solo pensare a situazioni così estreme, mentre il paese ha un’economia a crescita zero, disoccupazione record, povertà alle stelle, un terzo dei 45 milioni di afghani sopravvive soltanto con pane e the, aiuti umanitari ridotti all’osso, depressione e suicidi femminili in aumento, clima di paura diffuso.

Questo il tragico bollettino che giunge ciclicamente dall’Afghanistan. Ogni minimo mancato rispetto alla legge islamica vigente comporta intimidazioni, persecuzioni, punizioni corporee, anche pubbliche, fino all’arresto e alla tortura in carcere.

E accade anche in Medio Oriente dove gli stupri feroci compiuti dai terroristi di Hamas nell’attacco del 7 ottobre 2023 sulle donne israeliane hanno fatto il paio con le atroci sofferenze inflitte a centinaia di migliaia di mogli, madri, sorelle, figlie di Gaza; dolore innocente, presto dimenticato, superato da nuove emergenze, da nuove diplomazie, da nuovi tentativi di mettere a tacere gli orrori.

La Guerra cancella le guerre ingaggiate contro le donne in molti Paesi del mondo.

Nell’indifferenza di tutti gli altri.

Quell’indifferenza che si protrae da oltre tre anni è la diserzione più atroce,è la via più rapida verso la perdita dell’umanità perché fingere di non vedere è il modo più subdolo di uccidere.


Stefania Lastoria