Diario dal Giappone 1. I cestini di Tokyo

A Kyoto inizia a fare caldissimo già dalle 9 di mattina. Le cicale cantano, non c’è traccia di ombra e neanche un filo di vento. Prima di una giornata tra templi e santuari serve fare il pieno di acqua. Punto un kombini, uno dei tanti, tantissimi negozi di alimentari sparsi per le città giapponesi. Nella stessa direzione, davanti a me, c’è una signora anziana. Cammina lenta, in una mano un ombrello aperto, per proteggersi dai raggi del sole, nell’altra il carrello della spesa. Si ferma, ha notato qualcosa per terra. È uno scontrino, accartocciato. Lei si china, con un po’ di fatica, lo raccoglie e se lo mette in tasca. Poi continua per la sua strada.

È in gesti così che è nascosta l’essenza, o almeno una delle tante essenze, del Giappone. Un paese che mi ha sconvolto per la sua bellezza, per la sua capacità di essere moderno e antico allo stesso tempo, per essere straordinariamente diverso a quanto sono abituato. Sarà stata l’influenza di Perfect Days di Wim Wenders, visto durante le 16 ore di volo tra Roma e Tokyo, in cui il protagonista, Hirayama, si dedica con cura, con passione, con metodo quasi maniacale al suo lavoro di addetto alle pulizie dei bagni pubblici della capitale. Sarà stata l’abitudine alle nostre strade e alle nostre vie, dove rifiuti, plastica e cartacce sono, purtroppo, sempre di più. In Giappone, invece, di tutto questo non c’è traccia.

C’entra la religione, forse, quel buddhismo che si mescola allo shintoismo in cui non ci sono regole, comandi, obblighi, ma un’indicazione: vivere una vita semplice e in armonia con la natura e le persone. Un’armonia in cui la pulizia gioca un ruolo fondamentale. Pulizia vuol dire infatti purezza ed eccola che allora si vede ovunque. Nei templi e nei santuari, ovviamente, dove si entra lavandosi le mani e la bocca e togliendosi le scarpe, ma anche per strada, tra i binari della metropolitana, nelle vie.

Le stesse vie in cui, insieme alle cartacce, mancano anche i cestini. In Giappone praticamente non ce ne sono, se non pochissimi e vicini ai distributori automatici o ad alcuni negozi. Se devi buttare qualcosa, te la devi portare a casa o in albergo. La maggior parte dei cestini venne rimossa nel 1995, dopo l’attentato alla metro di Tokyo. La setta religiosa Aum Shinrikyo, fondata da Shoko Asahara, organizzò un attentato terroristico attraverso la diffusione di gas nervino allo stato liquido, contenuto in sacchetti di plastica avvolti da giornali. Le vittime furono 13 e oltre 6 mila le persone intossicate. Un numero incredibilmente basso anche grazie all’azione eroica di dui lavoratori della Metro di Tokyo, Tsuneo Hishinuma e Kazumasa Takahashi, che presero alcuni sacchetti e li portarono in una stanza chiusa, bloccandone la propagazione. Un gesto eroico, pagato con la morte.

Così per mantenere le strade pulite si deve fare un piccolo sforzo, quasi a ricordarci di come, nella vita, se vogliamo ottenere qualcosa bisogna metterci dedizione, impegno, costanza. Senza pensare, o pretendere, di avere un cestino a portata di mano. Ed è un discorso, questo, valido per gli spazi comuni e pubblici ma anche per quelli intimi e privati. In Giappone, ad esempio, a inizio anno si pratica l’”Osouji”, che noi potremmo tradurre con “buoni propositi” ma in realtà è letteralmente “pulizia”. È una tradizione che affonda le radici nel periodo Heian, nel 794 d.C., e consiste nel ripulire a fondo la casa, buttando cose vecchie, rimettendo in ordine, guardando ciò che si ha e apprezzandolo.

Non che l’impurità (il male, nello shintoismo, viene chiamato “Kegare”, letteralmente “sporcizia”) sia un pericolo, una paura, un’ossessione un qualcosa di sbagliato di per sé. È semplicemente qualcosa da evitare. O da raccogliere per strada, per mettersela in tasca e buttarla a casa. Un insegnamento che in molti dovremmo cogliere al volo.

Lamberto Rinaldi

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