La pedagogia dell’odio
Il 7 ottobre tutto il mondo ha ricordato l’eccidio perpetrato un anno fa da Hamas nel territorio israeliano. Ci sono state manifestazioni pro Israele e pro Palestina, come se non ci si potesse tutti unire nel dolore per le vittime di un atto di guerra, da qualunque parte esso provenga e chiunque lo subisca. Come se si potessero dividere gli esseri umani secondo la loro religione o nazionalità.
Alcune caratteristiche di questa tragedia sono molto singolari, come talvolta avviene nella storia dell’umanità, pur sempre drammatica e spesso inumana: non tutti gli atti di guerra sono eguali, anche se tutti sono orrendi.
A Be’eri sono stati trovati venti bambini con le mani legate dietro la schiena, due mucchi di dieci, bruciati. Forse bruciati vivi. Fa orrore solo a pensarlo, eppure è stato fatto.
A Kfar Azza molte vittime sono state decapitate o smembrate, come se uccidere non bastasse a placare l’odio.
Molti feriti sono stati freddati con un colpo alla testa, benché fossero ormai incapaci di offendere o di difendersi. In un filmato si è visto un assalitore uccidere a colpi di vanga un ferito, già caduto a terra.
Ci sono stati stupri, ma si è anche infierito sulle donne stuprate. Ci sono stati duecento e più rapiti, di tutte le età compresi vecchi e bambini.
Già tutto questo è più di un atto di guerra, perché aggiunge alla violenza della guerra una crudele efferatezza, che non sempre è dato di vedere.
Io riesco a capire che un essere umano uccida perché è in guerra, probabilmente sentendosi autorizzato a farlo perché ritiene di combattere per una giusta causa. Anche se ciascuna delle parti in guerra pensa, il più delle volte, di essere nel giusto, e non capisce che ognuno possa avere una sua ragione. Mi chiedo, però, come un essere umano possa dimenticare la propria umanità fino alle feroci efferatezze che abbiamo visto. Mi chiedo che cosa lo induca a negare la propria umanità fino a questo punto, e come possa ancora rispettare sé stesso, guardarsi allo specchio, continuare a vivere, abbracciare un bambino o sorridere, come se nulla fosse accaduto.
Una risposta a questa domanda l’ha data Ismail Haniyeh, importante leader politico di Hamas, che ha elogiato l’efferata operazione, definendola eroica. Ha fatto capire che la ferocia delle azioni è auspicata, voluta, considerata nobile. Soprattutto che la ferocia è gradita a Dio. Il concetto è stato ribadito da Mohammed Deif, capo militare di Hamas. Egli ha dichiarato che l’operazione è stata voluta da Dio e che è stata un dovere religioso.
È chiaro il senso di un tale atteggiamento.
Da una parte vuole evitare che alla ferocia segua un senso di colpa o un pentimento: anche uccidere i bambini, stuprare, infierire sui feriti e sui cadaveri fa parte del volere di Dio. Dall’altra ci fa capire che a monte di questi comportamenti c’è un’educazione a considerarli giusti, un processo formativo (o deformativo) che porta un essere umano a dimenticare la propria umanità, a considerare i nemici (in questo caso gli ebrei) come non umani, degni non solo di morte, ma anche di crudeltà, efferatezza. Fin da piccoli, i seguaci di Hamas sono sottoposti a un indottrinamento che gli inculca questa visione del mondo e, quel che forse è peggio, questa visione della religione: una vera e propria pedagogia dell’odio, che li condiziona e li rende insensibili all’umanità, all’empatia, alla pietà. Dio lo vuole, Dio è con noi: in bocca a chi uccide deliberatamente è una bestemmia che speravamo non dover più sentire. Tutto questo ci ha rivelato il 7 ottobre; e ci fa capire come la pace sia difficile se non addirittura impossibile, e comunque lontana.
Ma tutto questo assolve Israele dai suoi eccessi? Fa di Netanyahu un eroe? Mi chiedo se Hamas non abbia messo in conto la risposta di Israele, non l’abbia cercata e voluta. Una trappola, in questo caso, in cui Israele è caduto, mettendosi anch’esso al di là della linea che separa la guerra dai crimini di guerra. I casi di disobbedienza di alcuni militari israeliani, di cui è giunta notizia, fanno però sperare che ci sia una differenza. Non so se piccola o grande, ma è un seme di speranza.
Cesare Pirozzi