Giurato numero 2: l’impossibilità della non-giustizia
Il cinema americano rappresenta da sempre il vertice del genere thriller legal, o court drama, le storie che si svolgono in un’aula di tribunale. Clint Eastwood, a novantacinque anni suonati, raggiunge e supera questo vertice nel suo ultimo film Giurato numero 2. Non è solo l’ambientazione fisica, ma soprattutto il gioco fotografico delle luci e ombre che si trasla sul piano altamente esistenziale. Anche nello spostamento dell’azione principale dagli scranni del tribunale alla camera della giuria popolare il regista sintetizza e spinge in avanti quanto già espresso fino a questo momento da questo genere cinematografico. Genere al quale lui addiziona una dose in più di suspense, facendo propria una delle grandi lezioni di Hitchcock, consistente nel rovesciare lo svelamento della verità, non alla fine, ma quasi all’inizio del film. Questo non diminuisce la tensione, ma la trasla acutizzata su un altro piano.
C’è un ‘sistema d’immagine’ che percorre tutto il film. Quello delle rigature di luce e ombra che le tende veneziane lasciano negli ambienti e sui volti dei personaggi. Un discorso fatto non con le parole, ma direttamente con la profondità subliminale delle immagini sul contrasto esteriore e soprattutto interiore, esistenziale tra verità e giustizia. La giustizia è davvero un ‘processo’ arduo, aspro, quasi impossibile da portare a termine, ma proprio per questo è necessario tentare di svolgerlo. E l’opera d’arte è in sé un difficile processo verso la giustizia. Procedimento che si svolge come in un telaio, andando avanti e indietro per tessere, porre e contrapporre, sintetizzare gli opposti, i confliggenti in equilibrio di senso, di significato giusto, che testimonia giustizia, tutti gli elementi formali, di contenuto e valoriali in gioco.
Le due figure chiave di un film, ossia protagonista e antagonista, quali ruoli ricoprono davvero in questa vicenda? E chi è il colpevole? L’accusato alla sbarra o chi tra la giuria lo deve giudicare? Se poi fosse, sì davvero colpevole, ma allo stesso tempo anche innocente? E la pubblica accusa, rappresentata da una giudice esperta in femminicidi – come il caso sotto giudizio –, è più interessata alla verità, o alla mera vittoria giudiziaria, anche in vista di una promozione e di una slanciata carriera politica? Ma non dovrebbe essere la verità, solo la verità, nient’alto che la verità, proprio come recita il giuramento, l’unica, autentica possibilità di rendere giustizia? Queste e altre domande, dubbi, inquietudini squassano continuamente il racconto e ne lacerano la trama.
La verità, però, spesso ci cela, si nasconde dentro di noi, nel sottosuolo della nostra coscienza, la quale trova continuamente alibi per disconoscerla, negarla, dilazionarla all’infinito. Così non è soltanto l’ingiustizia, ossia l’opposizione smaccata, violenta, criminale alla giustizia, ma anche questa forma che giace non vista, non udita e non detta di non-giustizia, non solo e non tanto giudiziaria, quanto riguardante direttamente la nostra esistenza. Come nella materia oscura, ossia l’ipotetico 90% della massa presente nell’Universo che non emette radiazioni elettromagnetiche, siamo avvolti tutti, allo stesso modo nella non-giustizia, per quanto ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti.
Tornar a riveder le stelle, riemergendo dai sotterranei della non-giustizia, è concretamente, fisicamente quasi impossibile, perché comporta un rischio esiziale, di vita e di morte. Incontrovertibilmente impossibile, però, è solo non-giustizia e non-verità. L’innocente colpevole e il pubblico ministero accusatore – entrambi intimamente in ognuno di noi e nell’intera civiltà –, non potranno fare a meno, in nessun modo, di trovarsi faccia a faccia con esse. Ed entrambi, protagonista e antagonista, hanno un alto costo da pagare. Diversamente, potrebbe dischiudersi un altro necessario orizzonte. Uno dei più bei film di Clint Eastwood.
Riccardo Tavani