Si sogna chirurga ma si sveglia nella psiche del Teatro Argentina
Il Teatro Anatomico, ossia l’aula a forma di anfiteatro dove i chirurghi si esibivano, anche per il pubblico, in dissezioni e autopsie di cadaveri onde impartire lezioni di anatomia alle future leve della medicina chirurgica. Da tempo non si usano più, ma in Italia i più famosi restano quelli di Padova e Bologna, quest’ultimo distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, e ricostruito poi con il contributo di Lottomatica. Chissà se il gioco, la casualità della vita fa passare anche Maria Irene Sarti dal teatro anatomico a quello della mente, prima, e a quello delle scene e delle platee tout-court. Scene e platee, soprattutto del Teatro Argentina di Roma, dove è stata impegnata per trent’anni, e anche in tournee internazionali di grande successo, con il laboratorio Piero Gabrielli. Lo racconta nel suo libro Volevo fare il chirurgo, di recente uscita per le edizioni Tab. Il titolo si riferisce al fatto che poi ha scelto di abbandonare la chirurgia e specializzarsi in neuropsichiatria infantile, aderendo all’esperienza di Franco Basaglia, ed esercitando nelle zone abbandonate di campagna nelle province del Lazio e nelle periferie urbane di Roma.
Un laboratorio, quello del Piero Gabrielli, che ha messo a punto una della forme più avanzate al modo di teatro integrato. In esso il teatro mantiene la rigorosa elevatezza delle sue forme e dei suoi contenuti, ma i protagonisti sulla scena sono persone in cura per sindromi mentali e fisiche. Per dirlo con chiarezza, il Gabrielli non è mai stato teatro-terapia, pratica che pure ha la sua piena dignità, ma teatro autentico, in cui lo scopo principale è realizzare quella originaria forma d’arte consisteste nel mettere in scena la realtà, la società, nella loro materialità e spiritualità. Fare emergere queste persone oltre la condizione psicofisica loro accaduta, e il relativo ruolo sociale in esse cristallizzato, restituendole all’origine poetico-esistenziale della civiltà, ossia della città, della polis, dei suoi mali tragici, e possibilità drammatiche di riscatto. Se ci pensiamo, questa non è una mera integrazione, ma una non più scissa reintegrazione nell’originario esistenziale del teatro. L’umano male di vivere, il freudiano disagio della civiltà, parte/cipato messo in scena, in abyme, in abisso, da chi il male non può fare a meno di subirlo, in forma diretta di patologia,pathos, avendolo intessuto nell’intimità del corpo e della mente. Pathos, d’altronde, che è costitutivamente elemento ed espressione d’ogni alta forma d’arte, a iniziare soprattutto dal teatro.
Maria Irene Sarti è stata la consulente specialistica, ossia la persona che, relativamente ai suoi problemi, individuava l’essenza teatrale di una personalità. La indicava a Roberto Gandini, l’anima registica, autoriale, formativa del Gabrielli. Autoriale nel senso non solo della situazione da mettere in scena, ma soprattutto della parti da comporre poeticamente, proprio come in uno spartito musicale, per le singole personalità. Lo racconta lui stesso. C’era un ragazzo per il quale falliva ogni tentativo di integrazione teatrale. Irene Sarti, quale vero e proprio specchio di molte di queste menti, vede che il ragazzo percepisce quell’esperienza come una rottura con quella della madre. Cosa concepisce insieme a Roberto Gandini? Di convincere la madre a diventare attrice, scrivendo poi anche per lei una parte ad hoc.
Il libro di Maria Irene Sarti è ricco anche di QR, ossia di quei simboli digitali, che inquadrati con lo smartphone, aprono testi, foto, video che ci mostrano dal vivo le esperienze di cui si parla nei vari capitoli. Di uno di questi QR vorrei parlare, e non solo perché mi riguardano personalmente, ma anche perché è forse stata l’occasione di un aurorale approccio per la dottoressa Sarti di mettere in scena la sua materia. Si tratta di un documentario che ho realizzato per la Rai insieme a Marco Ferri sull’Istituto di Neuropsichiatria Infantile di Via dei Sabelli a Roma. Il titolo è Errata corrige. Neuropsichiatria al bivio dell’adolescenza, il QR si trova a pagina 36. In quegli anni l’Istituto era diretto da Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile. Suo medico di punta era Marco Lombardo Radice, che rivoluzionò letteralmente l’approccio clinico-teorico alla materia. Scomparso nel 1989, a soli quarant’anni, Marco fu anche autore con Lidia Ravera di Porci con le ali, romanzo cult di quegli anni. Il professore Bollea ha poi seguito diverse attività del Gabrielli con Irene Sarti. Sempre con lei, poi, io ho girato un altro documentario sull’attività medica istituzionale da lei svolta nei quartieri lungo la Via Casilina di Roma fino a Tor Bella Monaca. Intitolato Handicap, Handicap, Video Blues, è stato proiettato per anni in molti convegni di studi.
Il libro di Maria Irene Sarti è di una stringatezza che è al contempo anche la sua cifra stilistica letteraria di maggior pregio. La sostanza stratificata tra le sue poco più di cento pagine può essere dischiusa come un fiore rigoglioso, il cui destino, però non è quello di essiccarsi tra quelle stesse pagine. Non ci sarà passo futuro del laboratorio Piero Gabrielli, dell’evolversi del suo teatro integrato, che possa prescindere dal segno che vi ha impresso per i trent’anni dalla sua fondazione a oggi, la dottoressa d’anime ferite in scena. E anche se il primo capitolo del libro è intitolato L’angoscia dell’eternità, per quanto l’autrice possa affermarlo della propria, la sua opera, invece, sarà di tutt’altro parere.
Riccardo Tavani