Addio Roma, ma come vedi ancor non m’abbandona

Della poeta Daniela Ripetti-Pacchini abbiamo recensito nel tempo diverse raccolte di versi. E anche un libro di storia contemporanea fondamentale: Una giovinezza rubata, Memorie di Guerra Fredda, Book&Company, 2019. Di storia anche personale, dato che l’arresto e la montatura giudiziaria scaraventatole addosso, riguardarono l’intera generazione ribelle degli anni ’60-70 del Novecento. Ora una sua nuova plaquette di poesie è apparsa nelle vetrine, tra gli scaffali reali delle librerie e in quelli virtuali delle vendite on-line. Uscito per Transeuropa Edizioni, prende il titolo di Addio Roma e altre poesie. La collana in cui l’editore presenta questa sua uscita si chiama Nuova Poetica. E viene subito da domandarsi: “Qual è la relazione tra l’opera di Daniela Ripetti-Pacchini e l’espressione, il concetto di Nuova Poetica?”.

Ricordiamo che la poeta fu arrestata a soli 18 anni e assolta dopo 15 mesi trascorsi da innocente nel carcere di Rebibbia a Roma, perché accusata del presunto possesso di mezzo grammo di hashish. “Era tanto tempo fa/ nella mia giovinezza/ rubata come l’anello azzurro/ che avevo alle dita”, scrive in una poesia di questa silloge, Ricordanze 1976.

La poesia precocemente, fin dalla sua adolescenza a Pisa, dove è nata, si manifesta in lei come una naturale forma espressiva. In carcere si sviluppa quale forma di resistenza, lotta, contro il tentativo di schiacciarle la mente e i sentimenti. Forma oppositiva che si delinea, però, non sul piano dell’urlo meramente contenutistico, ma su quello di un’inedita tessitura linguistica. Una volta fuori dalle sbarre, il contatto con l’ossigeno effervescente di rivolta in quegli anni ’70 le consente il respiro metrico, ritmico e lo scambio simbiotico con la lingua tumultuante delle piazze, delle strade, delle assemblee, delle prime radio di movimento. “Che sta tornando la grazia lo sento/ dal lento allegerirsi del corpo/ c’è nella stanza l’azzurrino dei giorni/… Io sono oggi nuovamente amata/ dall’amore dell’amato/ in tutti i desideri”.

Nelle serate dal 28 al 30 giugno del 1979, al Festival dei Poeti di Castelporziano, a Ostia, vicino Roma, nonostante quasi nessuno la conoscesse, viene immediatamente riconosciuta quale voce autentica d’ogni granello linguistico e di pensiero disseminato su quella spiaggia. Dal Beat ’72, di Simone Carrella e Ulisse Benedetti, e con Franco Cordelli alle performances, ai reading collettivi in altro luogo sempre spalancato, tanto più se cantina, fino al successivo Festival Internazionale del 1980 a Piazza di Siena, la voce letta e ascoltata di Daniela Ripetti-Pacchini appare sempre più nitida ed elevata. E sono tante le lingue, le menti che la respirano, le epidermidi che la danzano, il fuoco politico, esistenziale in cui arde all’unisono. “Lanciasti un anatema/ agli scudi/ alle corazze/ al tremulo scintillare/ dei mitra. La visione si ripiegò/ in nuvola rotolante/ giù/ per le gradinate…”, da Ricordando una turbinosa assemblea (1979-1992). Dopo la sua partecipazione al Terzo Festival Interrnazionale dei Poeti, tenutosi nel 1981 all’Università di Roma La Sapienza, Ripetti-Pacchini deve lasciare Roma, per ricoverarsi a Pisa. Un addio definitivo. Quello intonato ancora nel canto poetico di questa sua nuova plaquette.

Ma la sua in quegli anni era nuova poetica, ossia d’avanguardia, o quanto meno così veniva considerata? E a rileggerla oggi come appare?  

Il tempo ritrovato, l’ultimo libro della sterminata Recherche proustiana, contiene un passo ben noto e caro all’autrice: “Se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se è rimasto nel suo proprio luogo, alla sua propria data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nella profondità d’una valle o sulla vetta d’una montagna…”. Tale irrimediabile separatezza, scissione tra gli eventi in cui Marcel  Proust s’imbatte alla ricerca nel tempo perduto, sono tutti quei folgoranti frammenti che improvvisamente riaffiorano dal passato e ci riportano alle labbra il lontano sapore di una madeleine inzuppata nel tè.

Questo, però, non avviene nell’opera poetica di Daniela Ripetti-Pacchini, perché lei stratifica i suoi versi non solo e non tanto di citazioni, ma di vere e proprio eco linguistiche di tutta la storia e la prassi letteraria non unicamente italiana, ma di tutto il mondo. Eco anche iconografiche di quadri, inquadrature cinematografiche, e suoni, brani musicali.

Prosegue il brano di Proust“… esso ci fa di colpo respirare un’aria nuova, –  nuova proprio perché è un’aria che s’è già respirata in passato, – quell’aria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”. 

Ecco, nella versificazione di Ripetti-Pacchini, questo colpo di respiro, d’aria anticamente nuova, è intessuto ab origine, sia nella lingua, sia nella metrica, nel ritmo musicale libero che lei scandisce. Per questo l’avanguardia nella sua opera non ha bisogno del tempo per diventare classicità, come avviene costantemente nella storia dell’arte. Mai la dizione Nuova Poetica, ossia il nome la collana editoriale che ospita questa sua raccolta di versi, ha così profondamente corrisposto alle forme e ai contenuti della sintesi poetico-esistenziale che graficamente riveste. Sintesi, infatti, che risuona ancora oggi d’avanguardia, perché essa non va alla ricerca, ma reca dentro di sé la gioia, la gloria della novità autentica, della novella nell’annuncio a ogni verso del paradiso ritrovato.

Novella artisticamente gioiosa che supera, però, anche la nota espressione di Friedrich Schiller: “Seria è la vita, ma serena l’arte”, perché la dolorosa vicenda personale dell’autrice non è scindibile dall’apparire alla coscienza  universale della sua espressione letteraria. Come non lo è stato per il libro di storia contemporanea sopra ricordato, non lo è neanche per il male fisico che ha successivamente gravemente colpito il suo corpo. Ma l’esultanza di questo suo Addio Roma e altre poesie, trapela tra i versi come un pianto, un rimpianto non suo, ma della città stessa ad aver visto allontanarsi questa sua indomita figlia. Perché se si dice: “Nun sei de Roma si nun hai salito quei tre scalini”, alludendo a quelli del carcere, a lei è capitato di farlo, scendendo altresì nelle viscere del dolore sociale, esistenziale, fino al suo sottosuolo più nascosto. Là sotto “Le parole… le note/ riposano in una tomba/ se non c’è uno strumento che le respiri/ se non c’è un danzatore che le danzi/ e ne riaccenda il fuoco/ sotto la cenere della loro quiete”. E Roma non può permetterselo, tanto che anche a Pisa e inquesti versi, come vedi ancor non m’abbandona.

Riccardo Tavani