Maestrelli, il film e la Lazio a colori della sua vita
Un film documentario che non solo nessun laziale può mancare. Non dovrebbe mancarlo, infatti, neanche nessuno sportivo, appassionato o meno di calcio che sia. Ma soprattutto non deve mancarlo alcun cinephile, perché ci troviamo davanti a un gran bel film, che è anche un pezzo di storia del costume e delle vicende italiane, di cui gli stadi sempre sintetizzano e riflettono l’eco. Tommaso – Maestrelli e il calcio a colori, firmato da Francesco Cordio e Alberto Manni prodotto da Matteo Rovere e Groenlandia, è stato presentato con grande esito di pubblico alla Festa del Cinema di Roma 2024. Ora approda sulla piattaforma gratuitamente accessibile di RaiPlay, durata 80 minuti.
Nel mio campo di competenza, che è quello del cinema, mi sento in obbligo di testimoniare quella che si mostra – fin dalle immagini d’apertura – come una pagina davvero magistrale di raccontare la vicenda umana e sportiva di un Maestro, quale è stato e resta Tommaso Maestrelli. Le stesse immagini d’archivio scelte (chissà tra quante) dai due autori sprigionano una forza e una freschezza narrativa che ci riporta dentro, nell’aria, nello spirito di tutto l’arco della vita e dell’opera del protagonista. Arco che va dal 1922 al 1976, ossia i cinquantaquattro anni della sua comparsa, scomparsa e impronta lasciata non solo tra le zolle e l’erba dei campi di calcio. E nel racconto, ma anche nello svelamento dei significati più autentici, il volto e la voce narrante del film sono quelle di Massimo Maestrelli, l’unico figlio ancora vivente tra le due sorelle Patrizia e Tiziana e il fratello gemello Maurizio. È scomparsa anche la madre Lina Barberini, una figura che ha sostenuto sempre Tommaso in tutte le sue gravose responsabilità, e molto amata anche dai giocatori, che spesso erano suoi ospiti e che si prendevano cura anche dei due ragazzini terribili, come affettuosamente sia i giocatori, sia i tifosi avevano soprannominato Massimo e Maurizio.
Il ruolo da centrocampista, svolto nei suoi anni da giocatore, infatti, ha rappresentato solo una ouverture, un preludio alla centralità filosofica, mentale, spaziale, creativamente geometrica, delle traiettorie strategiche, tattiche del suo calcio a colori. Quest’ultima espressione è stata coniata e poi donata al titolo del film da Riccardo Cucchi. Il giornalista sportivo, testimone di spicco della storia della Lazio, spiega il senso della sua definizione. Maestrelli proviene prevalentemente dalla periferia meridionale del calcio italiano, da squadre quale la Bari, il Foggia, la Reggina, e un paio d’anni sia alla Roma, sia alla Lucchese, prima come calciatore, poi come allenatore. In quest’ultima veste lui è il primo ad aprire lo sguardo sull’intera scena del calcio europeo. Dall’Olanda, in primo luogo, all’Ungheria poi, e a ogni altra nazionale dalla quale potesse estrarre una lezione, un insegnamento, un’idea nuova per modernizzare, rendere più dinamico, bello e spettacolare il gioco delle sue squadre. Della Lazio soprattutto, perché lì ha trovato un presidente, Umberto Lenzini, che gli ha dato piena fiducia e tante buone gambe e teste di giocatori, per applicare e mettere a punto le sue innovative concezioni, tra l’altro sempre working in progress.
Lo spirito transnazionale, il respiro europeo, è derivato a Maestrelli da una pagina dolorosa, ma cruciale della sua esistenza. Quella sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale. Catturato dalle truppe naziste in Montenegro, è internato in un campo di prigionia vicino Belgrado. Da lì, però, riesce a fuggire, arruolandosi tra i partigiani e i combattenti provenienti da ogni estrazione sociale e Paese per restituire pace e libertà all’Europa, allora divorata dalla follia bellica e dell’Olocausto. Non c’è dubbio che tra quel fango e quelle trincee, Tommaso abbia maturato l’apertura del suo sguardo, del suo carattere, alla tolleranza e al governo saggio delle differenze, dei contrasti, spesso anche aspri, come quelli che nello spogliatoio e sugli spalti tra i tifosi. Il film, le testimonianze di Massimo Maestrelli, e dei calciatori Giancarlo Oddi e Luigi Martini, svelano pagine inedite, sconosciute, o misconosciute dal pubblico di ieri e soprattutto di oggi. Come quella del vezzo, a partire da Giorgio Chinaglia, di arrivare agli allenamenti con armi, fucili, pistole di un certo calibro addosso. O degli odi personali, che arrivavano fino quasi alle mani, che portarono a una spaccatura umana verticale nella squadra. Eppure Maestrelli, che armi pesanti e odi viscerali li aveva vissuti in guerra, a rischio della sua stessa pelle, ha saputo secernere tutta la sua calda saggezza umana, ma anche l’analitica freddezza logica, nel contenere quei caratteri, i loro dissidi, incanalandoli nella potenza e nell’unità del gioco che aveva intessuto nelle menti e nei sentimenti dei suoi giocatori.
Certo, però, a proposito di armi, il pensiero non può che tornare alla tragica vicenda di Luciano Re Cecconi, mortalmente attinto dai proiettili sparati dalla pistola di un suo amico gioielliere che si dice lo avesse scambiato per un rapinatore. Un vero e proprio giallo, di cui non si sono mai chiariti del tutto i contorni, e del quale, anzi, sono state fatte sparire nel tempo alcune tracce importanti. Re Cecconi era legato al Maestro fin dai tempi del Foggia, ed era l’unica persona cui Lina e lui affidavano con totale fiducia e tranquillità i due gemelli. Ecco, a rendere ancora più angosciante la sua scomparsa per la famiglia Maestrelli, è che proprio in due fratelli vedono a terra il corpo insanguinato di Luciano, del loro Tato, come lo chiamavano, e corrono disperati a casa a dirlo alla madre. Era subito dopo le feste di del Natale, il 18 gennaio 1997. Tommaso se ne era andato appena da un mese e mezzo, il 2 novembre 1976, nel tormento di un devastante tumore al fegato. Per questo nel film non si racconta tale episodio, perché – fortunatamente, pur nello strazio – accaduto fuori la vita del Maestro.
L’apoteosi raggiunta da Maestrelli con lo scudetto alla Lazio nella stagione 1973-1974, non è una vetta a sé stante nella sua lunga e tenace carriera. Il film ricorda quanto lui fosse cercato, adulato, costantemente pressato, prima per le Olimpiadi, poi per i Campionati del Mondo, quale allenatore della Nazionale. Fatidica la sua risposta: “La mia Nazionale resta la Lazio”. Una panchina quella di questa sua Nazionale, che lui non ha voluto lasciare neanche quando era già gravemente malato, e Lina lo implorava di accettare l’incarico in Nazionale, perché meno gravoso, con sedute d’allenamento e partite più diluite nel tempo. Ma anche il male che non gli dava tregua metteva Tommaso in uno stato d’incertezza. Lui, inoltre, doveva un’ultima cosa alla squadra da cui tutto aveva ricevuto e cui tutto aveva dato. Salvarla dalla B, la serie da cui l’aveva presa, e che – lui presente – non poteva permettere tornasse. Era il 16 maggio 1976, Stadio Giuseppe Sinigaglia di Como, arbitro Agnolin da Bassano di Grappa. Finisce 2 a 2, goal della Lazio dell’esordiente Bruno Giordano (voluto in campo da Tommaso), al 20’, e di Roberto Badiani al 53’. In serie B finisce l’Ascoli, 1- 1 all’Olimpico con la Roma. L’ultimo atto d’amore per la maglia bianco-celeste, l’ultima sfida da lui vinta, importante quanto e forse più dello scudetto, perché è proprio nelle trincee più aspre che non abbandona i suoi ragazzi un Maestro.
Riccardo Tavani