Lo Scrigno
Il palazzo è di quelli un po’ anni Venti, o forse Trenta. Alto ed un po’ austero, col cortiletto interno che una volta forse permetteva alle mogli e alle madri di ritrovarsi tra le beghe e gli schiamazzi dei figli in calzoncini corti. C’è una Vespa rossa, che chissà quando sarà stata messa in moto l’ultima volta, qualche bicicletta appoggiata alla bene e meglio sul muro scrostato del vicoletto che dalla strada introduce nel cortile. Mi sembra di essere dentro un libro di Alba de Cespedes che ho letto qualche mese fa. La compagnia, se possibile, è ancora più surreale. Un archeologo che per passione gestisce l’enoteca dove fino a pochi secondi fa sorseggiavamo un calice di vino, un esperto di storia medievale che scrive fumetti, un giornalista che per vivere porta i treni e un pittore che progetta di esporre quadri proprio lì, al centro della via, e nel frattempo lavora il legno per vocazione. Poi ci sono io e quale sia il mio posto nel mondo ancora non lo so.
Nella penombra di questa notte romana di mezza estate, in fila indiana dietro a Francesco, l’archeologo, che regge tra le mani un mazzo di chiavi attraversiamo il vicolo per infilarci dentro una porticina mezza sgangherata. Sembriamo dei Carbonari, penso, dei cospiratori. Il motivo che ci spinge ad infilarci dentro un portoncino di un palazzo anni Venti (o Trenta?) di Roma Nord in realtà non ha niente a che vedere con le cospirazioni, ma nasconde comunque qualcosa che a me sa di un romanticismo fumoso di molti decenni fa. “Sotto ci facciamo le degustazioni, dovete venire a vedere.. abbiamo appena restaurato”.
In pochi minuti siamo arrampicati su delle strette scale a chiocciola, la sala si trova in fondo. Attaccate ai muri locandine di spettacoli di danza su cui campeggia il volto scanzonato di un signore col cilindro. C’è una scuola di Tip Tap in fondo alle scale. Una scuola di Tip Tap. Immagino l’andirivieni di avventori e signorine dalle scarpe suonanti attraverso quei corridoi che odorano di cantina della nonna. La musica di sottofondo che distilla il tempo, goccia a goccia, di un rosso tanto denso da sciogliere con il cuore anche la pelle. Quando la chiave finisce il suo giro nella toppa, ci ritroviamo dentro uno scrigno. Un scampolo di tempo ritagliato da un racconto lontano e ricucito così, nel bel mezzo delle frenesie, delle ansie, delle distorsioni di questa nostra inutile modernità. L’odore del legno e delle pareti di muro vivo solletica le narici, arriva al cervello e spegne ogni contatto col mondo. Fuori dallo Scrigno, ora, non esiste nulla. Massimo, il pittore, ha costruito o restaurato buona parte dei mobili sistemati nella stanza. C’è un tavolo lungo, di un legno che al tatto pulsa. Questo sì, sembra davvero presagire qualche riunione segreta. Le sedie sono il frutto del lavoro del nonno di Francesco (che poi, dimenticavo di dirvelo, è il figlio di Massimo, il pittore!). Il nonno di Francesco era uno scenografo, ha lavorato anche al Pinocchio con Manfredi, mi dice Francesco. Le sedie hanno un’aria così teatrale che a sedercisi su sembra quasi di violare qualcosa di sacro. Sulla parete laterale un mobile interamente costruito da Massimo ospita decine di bottiglie che un giorno si offriranno generose alle labbra dei degustatori. Non c’è niente che non sia esattamente dove dovrebbe essere. Un mobile radio, una vecchia Berkel un po’ arrugginita, altri vini, dalle casse in ceramiche modellate dalle mani sapienti di un artista salentino esce del jazz. Le note scendono a sfiorarci, a raccogliere i nostri pensieri più intimi e tornano indietro a corteggiare quello che per me rimane il protagonista dello Scrigno. Il bancone. Un vecchio bancone stile liberty recuperato in un mercatino dimenticato da Dio, messo lì per essere trovato, per arrivare un giorno nello Scrigno e regalarci un angolo di magia. Non riesco a smettere di pensare ad un donna in abito da charleston, pallida, sotto una nuvola di capelli corvini, i guanti di seta e tra le dita un bocchino su cui è stata messa a consumare una sigaretta a malapena assaporata. Forse le ballerine di Tip Tap della sala accanto potrebbero assomigliarle, vorrei vederle. È difficile lasciare lo Scrigno. Ora che il mondo è svanito, che esiste solo questo tavolo di legno che mi vuole già bene, questa musica che ci risistema il cuore, ora che abbiamo ricordato il potere della condivisione. So che questa stramba compagnia non dimenticherà, so che ognuno porta con sé ciò che una sera gli è stato raccontato dallo Scrigno.
di Martina Annibaldi