Un uomo Libero
“Caro estortore,
volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della Polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere”.
Così scriveva Libero Grassi in una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia il 10 Gennaio del 1991. Fu forse quella denuncia pubblica a segnarne il destino, ancor più della scelta stessa di non versare un centesimo nella tasche di Cosa Nostra. Qualcuno forse ci aveva già provato a non pagare il pizzo alla mafia, magari con le minacce, con le aggressioni poi aveva ceduto, quantomeno era stato zitto. Libero Grassi no. Libero Grassi aveva capito che pagare alla mafia un permesso per poter lavorare significa privare di qualsiasi dignità quello stesso lavoro. Significa legittimare il potere decisionale dei mafiosi sul territorio. Se tu sei dalla parte giusta lavori, se sei dalla parte sbagliata nella migliore delle ipotesi sei costretto a chiudere la tua attività.
Tutto questo mentre lo Stato resta a guardare silenzioso e accondiscendente ( non si dimentichi la scandalosa sentenza emessa nell’Aprile del 1991 dal Giudice istruttore di Catania, Luigi Russo, in base alla quale il pizzo, se pagato per proteggere la propria attività, non costituisce reato).
Grassi semplicemente non aveva alcuna intenzione di scegliere tra queste due ipotesi. Traferitosi da Catania a Palermo ancora bambino, inizia l’attività imprenditoriale negli anni Cinquanta, mettendo su un’azienda a Gallarate insieme al fratello. A questa prima esperienza segue la fondazione dell’azienda che attirerà poi le minacce mafiose, la Sigma. Impresa tessile, dedita alla produzione di biancheria femminile, la Sigma è il successo di Grassi. Un vero leader nel settore, con un fatturato da far gola e 150 operai all’attivo. Impossibile rimanere a lungo nell’ombra.
Le prime minacce arrivano a metà degli anni Ottanta, al rifiuto di pagare seguono una serie di rapine ai danni dei dipendenti della fabbrica. Gli estorsori vengono arrestati ma la storia continua. È un tale geometra Anzalone a perseguitare l’imprenditore. Chiede 50 milioni di lire. Grassi non si piega. Arriva la lettera pubblica, l’ospitata al programma televisivo Samarcanda. Alla risonanza mediatica si accompagna un penoso isolamento da parte dei colleghi, incapaci di comprendere la necessità di far quadrato intorno a chi si stava battendo anche per i loro di diritti. Come accade il più delle volte, anche Libero Grassi viene accusato di manie di persecuzione ( a dirlo sarà l’allora Presidente degli industriali di Palermo, Salvatore Cozzo) e la proposta di creare delle assicurazioni collettive in grado di tutelare gli imprenditori dall’estorsione di denaro verrà rigettata in tronco dall’Associazione industriali di Palermo.
Nel Paese in cui si diventa eroi solo da morti, la storia di Libero Grassi non costituisce alcuna eccezione. Quando la mattina del 29 Agosto 1991 viene assassinato a colpi di pistola da Salvino Madonia e Marco Favalaro è un uomo screditato ed isolato da chi ne avrebbe dovuto, più di chiunque altro, condividere le battaglie. Il decreto che porterà alla stesura della legge anti-racket e alla creazione di un fondo di solidarietà per le vittime di estorsione verrà varato a pochi mesi di distanza dall’omicidio, perché, ancora una volta, serve il clamore di un morto affinché si muova anche il più banale dei passi.
La Sigma però è ancora lì. Con un nome nuovo, una fase di crisi lasciata alle spalle ed i figli di Grassi alla guida. L’orgoglio visibile di un uomo che ha scelto di essere Libero.
di Martina Annibaldi