La cittadinanza negata ai Rom italiani. Accesso alla protezione internazionale, apolidia e ius sanguinis: alla base del diritto violato
Quattro donne, due nate a Palermo e due residenti in città da più di 20 anni, tutte originarie della ex-Jugoslavia, il 17 febbraio scorso sono state trasferite nel Centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Roma a seguito del blitz nel campo nomadi della Favorita di Palermo effettuato per verificare la presenza di extracomunitari irregolari o destinatari di decreti di espulsione. Una settimana dopo, il 23 febbraio, il Tribunale non ha perà ravvisato gli estremi per il loro tratteniento ed espulsione ed alle donne è stato quindi consentito di rientrare nelle loro abitazioni.
Leoluca Orlando, sindaco Palermo, ha dichiarato che “quanto avvenuto al campo Rom di Palermo dimostra l’inaduegatezza della normativa italiana che, di fatto, autorizza, anzi incentiva, la deportazione di cittadini che non hanno compiuto alcun reato, ma sono soltanto colpevoli di non avere diritti di cittadinanza”.
L’episodio getta luce su due problemi che affliggono circa 15.000 Rom, Sinti e Camminanti residenti in Italia, ma anche molti gagé (non Rom).
Il primo riguarda i cittadini dei Balcani fuggiti dalla guerra negli anni ’90 o giunti in Italia prima della stessa, ma che non sono potuti tornare nei propri paesi per anni a causa del conflitto. Questi non rientravano pienamente nella definizione di rifugiato nella Convenzione di Ginevra e non hanno potuto beneficiare, anche se l’Italia decise di accoglierli, di un sistema d’asilo italiano sviluppato. Chi ha potuto beneficiare della protezione internazionale, ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari valido un anno e rinnovabile fino alla fine del conflitto. Circa 10.000 Rom però sono rimasti all’oscuro di questa possibilità e fuori dal sistema della protezione, vittime dei pregiudizi che li identificavano come nomadi prima che come bisognosi di protezione. Se da una parte molti sono riusciti, nel tempo, ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi, tanti si trovano tuttora in una condizione di limbo, con una protezione per motivi umanitari o mai ottenuta o che una volta scaduta non è stata riconvertita in altro permesso. In breve, irregolari. Molti sono diventati apolidi di fatto: non hanno potuto ottenere la cittadinanza dei paesi formatisi dopo la guerra ma non hanno potuto provare la propria apolidia allo Stato italiano. Non essendo riconosciuti formalmente come cittadini senza paese, non godono dei diritti garantiti agli apolidi che mirano a limitare la loro condizione di precarietà.
Ma c’è dell’altro: gli apolidi di fatto trasmettono questo status ai propri figli nei paesi, come l’Italia, dove vige lo ius sanguinis. Tuttavia, anche se i genitori hanno la cittadinanza di un altro Paese, i figli nati in Italia si trovano in una condizione di svantaggio, in quanto possono richiedere la cittadinanza italiana, che non viene riconosciuta automaticamente, soltanto al compimento del 18esimo anno di età. Questo non sempre avviene e i cavilli burocratici portano molti ragazzi e ragazze a non poter beneficiare di questa possibilità, relegandoli allo status di stranieri presenti irregolarmente sul territorio del Paese in cui sono nati e cresciuti e che in molti casi non hanno mai lasciato.
Sul tema dello ius soli proprio domani (28 febbraio N.d.A.) si terrà a Roma, Padova, Firenze (e San Francisco) il Carnevale della Cittadinanza, per manifestare riguardo il diritto di tutti gli italiani di fatto di detenere la cittadinanza del proprio Paese.
di Giulia Montefiore