Giovanni e Tommaso, il Giudice e il Boss
Senti paps ,(sic!) chi era, esattamente, Giovanni Falcone? Perché gli sono stati dedicati un asteroide, strade, scuole, aeroporti?
Quando mia figlia è nata – nel 1998 – erano passati già sei anni dalla strage di Capaci e dalla morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre uomini della sua scorta. Oggi ne ha 19 e di anni ne sono passati venticinque. Se come si dice, ‘il tempo è galantuomo’ lo è in virtù del fatto che l’opera della memoria è anche opera di oblio. Di una vita – anche la più intensa – restano, il più delle volte, solo pochi e sfocati ricordi.
Quindi la domanda di mia figlia, pone anche a me il problema di ricordare “chi era Giovanni Falcone”, se non altro per tentare di consegnarle qualcosa che possa perdurare oltre il mero esercizio della memoria.
E per farlo mi servirò della visione ‘verticale’ sperimentata nel cinema e proverò a raccontare la vita di Giovanni Falcone intrecciandola – dall’alto – con quella di un suo coetaneo: un ragazzo nato nello stesso quartiere della Kalsa a Palermo, certo Tommaso Buscetta.
Proprio perché la vita è costante tensione tra opposti, per raccontare di Giovanni Falcone, il magistrato che ha ‘sconfitto’ i boss di Cosa Nostra, provo a raccontare in parallelo la vita del capo clan e ‘pentito’ Tommaso Buscetta, che proprio a Giovanni Falcone ha confessato meccanismi, strategie e dinamiche della mafia siciliana.
Quella di Giovanni – futuro magistrato – e di Tommaso – futuro boss mafioso – è una vita che pare fatta apposta per intessere un dialogo ravvicinato ma, al contempo, definitivamente separato. Per quanto entrambi portino il nome di due Apostoli, a distanziarli non è solo un fatto generazionale.
Sono gli anni della guerra e della ‘borsa nera’. Palermo è una città già molto tormentata. Vista dall’alto, le tre cupole rosa della Chiesa di S.Cataldo, i teli tesi del mercato della Vucciria e la grande mole bianca del teatro Politeama, contrastano con il formicolio delle strade, il nero dei palazzi squarciati dai bombardamenti e il blu cobalto della linea di costa. Da quassù Palermo pare una scacchiera a colori e buchi neri, adagiata sulle rive del Mediterraneo.
E’ così che si mostra anche dopo dieci anni – nel 1945 – a guerra finita: una città di forti contrasti che non potrebbero essere meglio interpretati da Tommaso 17 anni, diciassettesimo figlio di una famiglia poverissima – che ha già alle spalle vari reati per traffici illeciti – e da Giovanni 6 anni, terzo figlio di coniugi benestanti, discendenti di medici ed ‘eroici’ caduti nelle due guerre. Possiamo azzardare l’ipotesi che Tommaso e Giovanni siano già – e per sempre – figli di un onore diverso.
Scialla paps, che vuoi dire?! Voglio ricordare a me stesso che ‘onore’ è una parola dal significato incerto e che ciò che per alcuni è considerato onorevole è disonorevole per altri. Tommaso conosce solo l’onore di chi si impone con l’inganno, la frode e l’omertà. Per Giovanni l’onore è la realizzazione di se stessi nel rispetto, nella dedizione, nella generosità spinta sino all’estremo sacrifico.
A pa’ che vuoi dire, due predestinati? In parte. Anche se nessuno poteva impedire esiti diversi. Tommaso ha – immancabilmente – avuto l’occasione di diventare una persona per bene e, del resto, Giovanni non ha goduto di alcuna garanzia per la scelta di restare – fino alla fine – una brava persona, coerente con i propri principi, anzi.
Anzi?… Voglio dire che commettere un illecito è molto più facile e – per certi aspetti – molto più conveniente, rispetto alla necessità di rispettare la legge.
Pensa alla difficoltà del giudice Giovanni Falcone, il quale ha continuato a difendere la magistratura e le istituzioni anche mentre veniva attaccato e infangato proprio da uomini dello Stato e da alcuni colleghi magistrati.
E perché lo attaccavano? Ora, ci arriviamo. Consentimi di continuare a raccontare con questo sguardo dall’alto la vita di Tommaso e Giovanni.
Piccoli spostamenti ci consentono di seguire Giovanni tra Palermo, Corleone – sì, proprio il paese di Riina, ‘Capo dei Capi’ di Cosa Nostra – tra Roma e le vacanze in Trentino. Giovanni ama la lettura, il calcio – pare fosse un vero talento – e il ping pong. E proprio nel corso di una delle lunghe giornate trascorse a giocare al ‘tennis da tavolo’, Giovanni incrocia, fatalmente, la ‘racchetta’ di Tommaso.
Eccoli. Un tavolo verde, listato di bianco. Una minuscola – da quassù – piumata pallina che svolazza da una parte all’altro del campo. Non sentiamo i tocchi secchi dei loro colpi, ma li possiamo immaginare. In questo loro primo ‘scambio’ intravediamo – dall’alto – qualcosa di misterioso che schiude ‘rintocchi’ ben più profondi. La posta in gioco – ora ingenua – un giorno sarà enorme e totale: vita o morte. Tic, tac: ecco, ora lo sentiamo il rumore del tempo. Tic, tac: poi la pallina finisce in rete. Sono i rintocchi di una partita eterna che eternamente si gioca.
Secondo te chi ha vinto? Non lo so, ma a me pare straordinario e importante che Tommaso e Giovanni si siano trovati l’uno di fronte all’altro.
Posate le racchette da ping pong sul tavolo, condividendo uno sguardo di reciproca curiosità, Giovanni torna ai suoi studi che lo portano a Livorno all’Accademia Navale, poiché sogna la vita da ufficiale di marina. Tommaso, invece, il mare è costretto ad attraversarlo. Già ricercato dalla polizia per i suoi traffici e il contrabbando di sigarette, decide di lasciare l’Italia. Passa l’Atlantico e sbarca in Argentina e poi in Brasile, dove prova ad aprire una vetreria, per investire i proventi illegali dei suoi ‘affari’.
Incredibile: falliscono, entrambi. Sono i primi anni Sessanta. Giovanni si accorge che la vita militare non gli si addice e – sulle orme della sorella – si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Tommaso, squattrinato, è costretto a tornare ma se non vuole lasciarci la pelle, deve allearsi e prestare giuramento di fedeltà agli uomini di Cosa Nostra. Diventa killer affiliato dei capi Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti e Angelo La Barbera: ‘padrini’ incontrastati del traffico internazionale di stupefacenti. Uomini che gestiscono gli incalcolabili proventi del mercato internazionale di droga tra Brooklyn, Palermo e Tirana.
Boss, del resto, che per regnare cominciano a farsi la ‘guerra’. La prima guerra di mafia – tra il 1962 e il 1965 – vede lo sterminio di migliaia di ‘picciotti’, di affiliati e – senza alcuna pietà – anche dei loro familiari.
L’infinità distanza da cui abbiamo deciso di guardare alle cose, ci consente di prendersi gioco del ‘tempo’. Una larga paronimica ci porta a vedere innumerevoli teli bianchi che coprono i corpi crivellati di colpi e la lunga scia di sangue che arrossa le strade di Palermo. Da quassù, la scena della mattanza, si conclude il giorno in cui Giovanni Falcone, diventa magistrato. Ha solo 26 anni, il giovane procuratore di Lentini. E’ il 1965.
Tommaso ha compiuto 37 anni, da latitante. Ricercato dalla giustizia e ‘condannato’ a morte dalle cosche rivali è dovuto scappare da Palermo e ha trovato, ancora una volta, rifugio oltreoceano. A Brooklyn apre una pizzeria con l’aiuto della famiglia Gambino, su intercessione del clan Badalamenti.
L’inquadratura, ora, si stringe e con una picchiata ci tuffiamo negli uffici della Polizia di Palermo. C’è un via vai di persone: qui lavora Boris Giuliano, un ostinato commissario, alle dipendenze dei due procuratori: Cesare Terranova e Rocco Chinnici.
A papà ma questi che c’entrano, adesso? Abbi pazienza. E’ impossibile raccontare qualcosa estraniandola da un certo contesto. Devi sapere che cosa è in questi anni la lotta alla mafia. Devi capire che, dopo le morti di sindacalisti come Pio La Torre o del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, nasce e si forma in quegli anni una ‘cultura’ investigativa che verrà poi raffinata e perfezionata proprio da Giovanni Falcone e confermata dalla ‘collaborazione’ di Tommaso Buscetta.
Sì e come? Come gliel’hanno passata questa ‘cultura’ investigativa?
Prima di essere uccisi dalla mafia – con la lupara Boris Giuliano e Cesare Terranova; con una bomba Rocco Chinnici – questi valenti ‘servitori dello Stato’ avevano fatto in tempo ad accorgersi delle qualità di alcuni giovani magistrati, tra cui Giovanni Falcone.
E Borsellino? Mi compiaccio! Brava, c’era anche Sergio Borsellino. Rocco Chinnici, procuratore di Palermo, chiama questi due giovani magistrati per indagare sui traffici di Cosa Nostra. E’ in questi anni tra il 1979 e il 1983, che si crea quel nucleo investigativo che – dall’anno successivo – sotto la direzione di Antonino Caponnetto, assumerà la definizione di “pool antimafia”.
E cosa ha scoperto Falcone di cosi importante? L’uovo di Colombo, forse, ma è il primo a portare prove inconfutabili dei traffici miliardari dei mafiosi. ‘Seguire i soldi’ questo è l’assunto specifico delle indagini di Giovanni Falcone che entra nelle banche per indagini patrimoniali mai tentate prima d’ora. Capisce che serve poter ricostruire il passaggio di denaro da un conto all’altro, da una mano all’altra. L’analisi di questa sconfinata e sconcertante mole di dati inchioda con prove inconfutabili i padrini di Cosa Nostra. Il suo successo di Pubblico Ministero si celebra con la sentenza del cosiddetto ‘maxiprocesso’ del 1987, che vede la condanna di 360 imputati, a complessivi 2.265 anni di carcere.
Uhm, però! A distanza di tempo, non si contano i libri, i film, le serie televisive dedicate a questa squadra di procuratori intelligenti e coraggiosi, su cui spicca il valore di Giovanni Falcone. Mi piace pensare che la penna degli scrittori e la macchina da presa dei registi si sia intrisa di questo loro lascito in modo naturale e inevitabile, come l’acqua che fertilizza la terra. Ricordare la vicenda di Giovanni Falcone è il solo modo di suscitare non solo l’ammirazione nei suoi confronti, ma il desiderio di dare il meglio di noi stessi in ogni circostanza, costi quel che costi.
E Tommaso Buscetta, nel frattempo dov’è? Ah, ti sta acchiappando la storia!
Da quassù – siamo nel 1981 – si vede Tommaso Buscetta evadere dal carcere e fuggire in Brasile. Libero, paga lo stesso il prezzo della vendetta di Cosa Nostra che, passata in mano a quelle belve dei Corleonesi di Totò Riina, fa strage dei ‘picciotti’ dei clan rivali, senza risparmiare i loro familiari. Per quanto Buscetta si sia trasferito in America e da qui in Venezuela e poi in Brasile, egli resta ‘amico’ e affiliato dei clan Bontade e Inzirillo: deve essere punito. Se ancora non avessi capito di quale crudeltà è capace la Mafia – al di là dello stereotipo degli ‘uomini d’onore’ – sappi che i corleonesi uccidono, uno ad uno, dodici dei familiari di Tommaso che, nel frattempo, si è guadagnato il titolo di ‘Don’. Per le organizzazioni criminali, egli è diventato Don Masino e deve morire.
E come tornano ad incontrarsi Tommaso e Giovanni? Il caso vuole che il procuratore capo di New York Rudolph Giuliani – da anni in contatto strettissimo con Giovanni Falcone – lo informi dell’arresto di ‘Don Masino’ avvenuto nel 1983. L’anno seguente Giovanni Falcone vola a San Paolo per tentare di convincere – in una visita lampo -Tommaso Buscetta a ‘collaborare’ con la giustizia italiana, ma senza successo.
Giovanni spinge, comunque, per la sua estradizione. Alla notizia che verrà rispedito in Italia, Tommaso tenta un finto suicidio ingerendo della varecchina per evitare, con ogni mezzo, di rientrare nel nostro paese.
E ci riesce? Zoom sull’Italia. Palermo. Carcere dell’Ucciardone. E’ in atto una rivolta. Quando Buscetta entra in prigione capisce che per lui è finita, presto uno dei suoi compagni di cella riceverà l’ordine di ucciderlo. Matura, dunque, l’idea di dissociarsi da Cosa Nostra e decide di parlare ma ad una condizione: ad accogliere le sue rivelazioni deve essere…
Il giudice Falcone? Esatto.
Eccoli. A distanza di quasi 30 anni, il giudice Giovanni Falcone e il boss Tommaso Buscetta sono – di nuovo – l’uno di fronte all’altro. A separarli il ‘solito’ tavolo. Non è più quello da ping-pong, ma la partita ancora una volta è fatta ‘colpo su colpo’. Quando metaforicamente le racchette e la pallina tornano a posarsi sul tavolo, pagine inedite e sconcertanti ci consentono di leggere – dall’interno – la storia della più grande organizzazione criminale al mondo, la più omertosa, la più impenetrabile. Contengono anche il racconto di una pagina oscura del nostro Paese e delle sue Istituzioni.
Paps, secondo te si sono riconosciuti dopo tanti anni? Non ne ho dubbi. Nelle lunghe giornate dei loro lunghi incontri, avranno senza dubbio ricordato la loro vita. Ne avranno tracciato e soppesato i percorsi e – immancabilmente – avranno colto più di una coincidenza, in un fatale ‘intreccio che, molto sommariamente, ho provato a raccontarti.
Quindi Tommaso Buscetta racconta la sua ‘verità’ e Giovanni Falcone, fa arrestare i capi di Cosa Nostra? Le cose non sono andate esattamente così.
Tommaso Buscetta, resta un mafioso. La ‘verità’ non l’ha mai detta del tutto e definitivamente. E poi, per un magistrato c’è la difficoltà di provare la ‘verità’: non basta che qualcuno gliela racconti.
Sono passati 33 anni da quando Tommaso Buscetta, per la sua collaborazione ha ottenuto la libertà e l’estradizione negli Stati Uniti. Dalle sue confessioni rilasciate a Giovanni Falcone, sono nati 33 anni di indagini e processi. Si è imparato a conoscere la mafia, si è capito come funziona l’organizzazione e – soprattutto – la sua capacità di cambiare pelle rapidamente. Oggi, molti mafiosi non sanno neppure cosa sia un’arma: hanno facce per bene e carriere rispettabili.
1984. Nel loro ultimo incontro, Tommaso spiega a Giovanni che ancora non gli ha mai fatto parola di ‘un terzo livello’ di Cosa Nostra: quello che nasce dall’abbraccio tra interessi economici e politica. I nomi di imprenditori e onorevoli collusi con Cosa nostra, lui, non li fa. Nessuno, neppure il ‘suo’ giudice gli crederebbe.
E davvero non ha più parlato? Lo ha fatto troppo tardi, dopo la morte di Giovanni Falcone – forse in un sussulto di riconoscenza – raccontando della collusione tra la mafia e alcuni apparati ‘deviati’ dello Stato. Ha fatto i nomi di persone che sono state per anni alla guida del nostro paese, in una trama di interessi in gran parte, ancora, impenetrabile. Il tempo di addossarsi critiche a non finire, di suscitare un vespaio di polemiche e poi – Tommaso – il boss che per una vita ha fatto avanti e indietro sull’Atlantico, muore a 72 anni di tumore dopo l’ultima crociera. Chissà se negli ultimi istanti il pensiero è andato anche a Giovanni Falcone, l’uomo che nel condannarlo gli ha creduto e che per aver creduto alle sue parole ha perso la vita.
E Capaci che c’entra? Perchè si ricorda tutti gli anni la strage di Capaci?
23 maggio 1992, all’aeroporto di Palermo atterra un aereo partito 53 minuti prima da Ciampino. A bordo il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Falcone decide di guidare lui l’auto blindata, al suo fianco la moglie, nei sedili posteriori l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Il corteo delle tre auto corre lungo l’autostrada. In testa la Croma marrone con gli agenti Vito Schifani, Antonello Montinaro e Rocco Dicillo; al centro la Croma bianca di Falcone e la Morvillo; sulla terza macchina, in coda, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Non sono soli. Qualcuno li sta seguendo e altri, da un’altura, già li scorgono nei loro cannocchiali. Le tre auto hanno appena superato lo svincolo di Capaci. E’ un secondo e la terra si apre in un boato. Giovanni Brusca ha azionato il telecomando d’innesco degli oltre mille chili di tritolo piazzati, a suo tempo, in una canaletta dell’autostrada. Muoiono sul colpo, sbalzati a 10 metri di distanza, gli uomini della prima macchina. Falcone e la moglie si schiantano contro il muro di cemento e detriti sollevati dall’esplosione. Nell’inferno di questa nuvola di polvere, di lamiere contorte e macerie fumanti si distinguono appena le sagome – lunari – dei tre uomini della terza macchina che, illesi, cercano disperatamente di rianimare Giovanni Falcone, riverso sul volante. Troppo tardi: Giovanni è già quassù. Buio.
di Luca De Risi