MinCulPop 2.0

Quando fu istituito – nel 1974 col governo Moro IV – si chiamava “Ministero per i beni culturali e l’ambiente”. Aveva il compito di tutelare il nostro ricco patrimonio storico, artistico e culturale, nonché i beni paesaggistici ed ambientali, non meno importanti e preziosi. Quel per indicava la sua finalità, quasi a sottolineare che fosse un ministero di servizio.

Non si chiamava “Ministero della cultura” per due ottime ragioni.

Innanzi tutto perché la cultura è libera, non dovrebbe essere di per sé governata, cioè diretta, indirizzata, influenzata dalla politica. È cosa ben diversa dal governare il patrimonio artistico-culturale, che invece ha bisogno di cure e tutele. Ed è anche cosa diversa dal governare i mezzi che lo Stato può mettere a disposizione per promuovere la cultura e l’arte, fermo restando che non dovrebbero discriminare o favorire l’uno o l’altro indirizzo politico che la cultura può manifestare, perché in fondo siamo uno Stato democratico e pluralista.

In secondo luogo perché l’Italia ha già avuto un ministero della cultura, anzi della cultura popolare, il famigerato MinCulPop del regime fascista. Ma, chiariamo subito, quel nome era del tutto ingannevole. Le finalità di quel ministero erano, infatti, la censura e la propaganda. Proprio allora fu coniato il termine “veline”, con riferimento ai foglietti in copia carbone con i quali un apposito ufficio dava ai mezzi di informazione direttive su cosa dire e su come dirlo. E per “cultura” si intendeva l’indottrinamento fascista, portato avanti con la radio, il cinema e i giornali dell’epoca. Era, in altri termini, una sorta di fabbrica del consenso e della censura.

L’attuale governo ha ripristinato un nome che apparteneva al nostro doloroso e vergognoso passato. L’avranno fatto per mera amnesia o consapevolmente?

Al di là delle opinioni, cerchiamo di vederlo nei fatti.

Il fatto più significativo è il decreto cinema, che il governo sostiene, come al solito, debba servire a sanare le malefatte dei governi precedenti.

Peccato sia stato fatto con enorme ritardo, a causa del quale gli occupati nel cinema sono scesi del 40%, mentre erano saliti del 50% nel periodo 2019-2023. Questo solo per l’ingiustificata lentezza del ministro che, si è poi saputo, era un po’ distratto.

Molti addetti ai lavori hanno criticato il decreto. A Venezia Nanni Moretti ha lanciato l’allarme per un decreto che Muccino ha definito “pretestuoso, confuso, incompleto e cavilloso”.

Ma lo stile MinCulPop assunto dal ministero è tradito dalla somma destinata a opere su personaggi e avvenimenti dell’”identità culturale italiana”: ben 52 milioni di euro sul totale di 84.3 milioni. Tradotto in parole più schiette, vuol dire che i soldi saranno indirizzati verso quelle opere che meglio rispondono all’indirizzo politico voluto dal governo.

Inoltre, se un nuovo Zeffirelli volesse fare un film su Gesù, resterebbe a secco, perché Gesù non era italiano. Idem per chi volesse far film su Gandhi, Einstein, Napoleone, Aurobindo, i Borgia (erano spagnoli), Gengis Khan o Geronimo (non mi riferisco al figlio di La Russa). Tipico provincialismo travestito malamente da nazionalismo alla MinCulPop.

Le altre produzioni dovranno accontentarsi delle briciole.

Per compensare il ritardo, oltretutto, il decreto è retroattivo, tanto per essere sicuri di fare il massimo del danno: quando si dice buongoverno.

Se non bastasse, per godere delle agevolazioni finanziarie non è sufficiente che un film sia distribuito, che sarebbe giusto. Deve essere accettato dalle case di distribuzione decise dal governo. Che vuol dire privilegiare la produzione a carattere più commerciale, ma soprattutto dare ai principali distributori il potere di decidere chi può fare un film e chi no.

Per ironia della sorte, l’ex ministro si è dovuto dimettere a furor di popolo (o almeno di mass media) non per un giudizio di inefficienza e incompetenza, che forse sarebbe stato meritato, ma per un affaire un po’ boccaccesco e per certi versi patetico, che la capo del governo ha cercato di declassare a privato. Anche se la femme fatale compariva spesso in un contesto pubblico e istituzionale.

Cesare Pirozzi