Parthenope, la gioielleria intossicata
Dichiariamo immediatamente l’intento apertamente polemico nei confronti di questo ultimo film di Paolo Sorrentino. Polemica non sul piano del giudizio direttamente estetico, ma economico-produttivo. I due piani sono in parte collegati, ma vanno analizzati separatamente.
In Parthenope, infatti, nella stragrande maggioranza delle inquadrature la protagonista, ma anche gli altri personaggi, appaiono con una sigaretta, in un caso anche con due, tra le labbra o tra le dita. Il tabacco è una merce sul mercato, al pari di tante altre, come anche di un’automobile. E se sullo schermo appare un certo tipo di automobile ben riconoscibile, non possiamo essere così ingenui da pensare che il suo costruttore non abbia pagato una discreta cifra per quella forma di pubblicità più o meno occulta. Con una differenza, però. Delle automobili si può fare la pubblicità, delle sigarette da anni non più. Le multinazionali del tabacco hanno perso processi con risarcimenti miliardari alle vittime del fumo, tra cui anche molti famosi attori del cinema sotto contratto con esse. Tanto che per anni il fumo di sigaretta era completamente scomparso dallo schermo. Da un po’ di tempo, invece, è tornato più incombente, asfissiante di prima. Il cinema torna così lo strumento privilegiato per promuovere il tabacco. Esso ha un alto potere emozionale ed emulativo, quindi funziona molto meglio della normale pubblicità. Oggi il suo rimbalzare su social e piattaforme on-line ne potenzia la capacità di persuasione inconscia. Per questo le associazioni dei produttori di tabacco pagano notevoli cifre, anche in relazione al numero di inquadrature in cui appare il fumo in un film. Fino a diventarne di fatto i – produttori occulti. È un indice di conformismo generale che la critica cinematografica e i cinephile non sollevino tale problema. Questione – che pur non essendo solo di questo film – qui si mostra in modo gratuitamente esorbitante, proporzionalmente al debordare meramente estetizzante di certe sue scene. Così che non possiamo fare ameno, anche desiderando astenercene, di assumere la responsabilità di gridare “Il re è nudo!”, come il bambino nella nota fiaba di Andersen. Poco o niente cambierà, l’imperatore continuerà a sfilare impassibile tra ali di adulatori plaudenti, ma la bolla di conformismo collettivo non potrà otturare tale foro di difformità, questa critica alla pura resa incondizionata alla logica del profitto.
Cosa mi stai vendendo? Del fumo o un film? È indubbio che mi stai vendendo innanzitutto il primo. Più che sugli incassi del film, considerati gli alti costi di produzione, è soprattutto dalla pervasiva pubblicità del tabacco che vengono realizzati i profitti maggiori nel mondo, data la sua distribuzione internazionale. Ma allora è lo spettatore che dovrebbe essere pagato per entrare in sala. O quanto meno, deve essergli elargito gratuitamente il biglietto d’ingresso, così come avviene in diverse piattaforme, anche di musica, dove si paga l’abbonamento se non vuoi la pubblicità o ne usufruisci gratis se sei disposto a beccarti una certa dose di advertising. E nel film la dose di pubblicità, per di più regressiva, intossicante assomma davvero a una – overdose.
L’autore potrà anche trovare giustificazioni a questa sua scelta. Tipo: la protagonista rappresenta la città, e a Napoli c’è un vulcano, il Vesuvio, con il suo pennacchio di fumo. O in lei l’autore rispecchia sé stesso, il quale appare sovente in pubblico con un sigaro in bocca. O che negli anni in cui è ambientata la vicenda si fumava molti più di adesso. Ma a parte che il Vesuvio non è che fumi sempre come Parthenope, cosa vogliamo fare, tornare per via emulativa a quel periodo? Dato che, in ogni caso, resta la marchetta all’industria del tabacco, non grande come una casa, ma come un vulcano, appunto.
Secondo il l’Istituto Superiore di Sanità, i fumatori in Italia sono 12,4 milioni, ossia il 24,2% della popolazione. Gli ex fumatori il 14,9%, i non fumatori il 60,9%. In città come Napoli, Roma e altre risulta leggermente più alta la percentuale dei fumatori. È evidente, in ogni caso, che le praterie di mercato da riconquistare e conquistare ex novo al fumo sono sterminate.
Il filosofo tedesco Theodor W. Adorno ha dedicato grande e qualificata parte della sua opera alla critica dell’industria culturale. Anche la cultura, l’opera d’arte si presentano sul mercato come una delle tante merci in vendita tra le altre. Anzi, attraverso esse i produttori smerciano meglio la loro fondamentale merce fideistico-ideologica di riferimento: il profitto capitalistico. Produrre un film non è come scrivere una poesia, per la quale al poeta basta anche solo un mozzicone di matita mal temperata. No, il cinema richiede discreti, quando non notevoli e a volte esorbitanti investimenti. E chi mette questi soldi non solo punta solo a un loro ritorno moltiplicato, ma anche – dato che li mette – a veicolare il proprio credo nel meccanismo di accumulo del denaro, del capitale economico, finanziario, monetario. Già Baudelaire si rese conto di questo, affermando, però, che il rischio della sottomissione andava accettato, pena l’esclusione dalla possibilità di esprimersi. E tutti i grandi registi hanno dovuto fare i conti con questo rischio e accettare la sfida potenzialmente letale tra arte e mercato. Sfida per lo più vinta – anche passando per tribolazioni e umiliazioni – dall’arte cinematografica.
Nel caso di Parthenope, invece, il mercato si mostra sfacciatamente sullo schermo attraverso una sua merce che è il simbolo stesso dell’intossicazione capitalistica dell’umano e del naturale. Quasi tutti i film di Paolo Sorrentino hanno diviso il pubblico e persino le singole persone dentro sé stesse. Compreso La grande bellezza, film meritatamente insignito dell’Oscar nel 2014. La forza e il significato autentico delle sue storie è proprio nella suadente bellezza, nella genialità inedita delle immagini, delle visioni a lui interiormente apparse ed esteriormente portate a noi sullo schermo. Non è da meno Parthenope, che a parte alcune estetizzazioni fini a sé stesse e colpi ad effetto troppo scontati, è un vero gioiello. Anzi, la vetrina di una grande gioielleria, ma – ‘ntussicat’.
Riccardo Tavani