Le donne Maya in Guatemala combattono la discriminazione con l’agricoltura
Si chiamano muñecas quitapenas e sono bamboline scacciapensieri che, secondo la tradizione Maya, assorbono le preoccupazioni. Sono uno dei prodotti, insieme a capi colorati, cuscini e borse, che vengono realizzati dalle artigiane di Aj Quen, organizzazione di donne vittime della guerra civile in Guatemala, e venduti localmente o esportati all’estero. «Guadagniamo solo qualche centesimo per ogni muñeca, dobbiamo coprire le spese per il materiale, le tasse e il trasporto», spiega Isabel Teleguario, presidente di Aj Quen Guatemala. Con lo scoppio della pandemia le vendite sono crollate: ci siamo dovute inventare qualcosa di nuovo».
Ed è così che è nato il progetto Agricoltura Sostenibile in Guatemala, grazie a supporto di Altromercato e Fondazione Altromercato.
Il progetto ha l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle donne Maya, creando un accesso al mercato locale e al commercio equo della loro produzione agricola nelle province di Chimaltenango, Alta Verapaz, Quetzaltenango, Quiché e Sololá.
«Questo supporto è stato fondamentale, specialmente durante la crisi politica che ha affrontato il Paese negli ultimi mesi. I camion non riuscivano a raggiungere le nostre comunità e i prezzi dei beni di prima necessità si erano alzati moltissimo. Ci siamo trovate a consumare ciò che avevamo piantato», racconta Teleguario.
Col tempo, le socie hanno aumentato le coltivazioni e hanno cominciato a vendere i prodotti nei mercati locali. «Abbiamo costruito serre e piccoli orti. Coltiviamo pomodori, cetrioli e altri ortaggi, e li vendiamo casa per casa o nei mercati. Alcune di noi hanno allestito un bancone, altre vendono lungo la strada, tutte le domeniche. Durante la settimana, le donne si dividono tra le lezioni e il lavoro nei campi, spesso fino a tarda sera», aggiunge Teleguario. A chi non ha terreno è stata insegnata la coltivazione in vasi e contenitori riciclati, come vasetti di yogurt.
La mancanza di terra è un problema cronico in Guatemala, una conseguenza diretta della guerra civile. Il conflitto, che ha devastato la popolazione indigena, ha portato a occupazioni e espropriazioni: le terre dei Maya sono state confiscate e distribuite ai militari di alto rango e a persone non indigene. Molte famiglie Maya sono state costrette a vivere nei sobborghi urbani, ammassate in baraccopoli, senza terra né risorse per sostenersi.
L’accordo di pace del 1996 prometteva una ridistribuzione delle terre, ma la riforma agraria non è mai arrivata. Oggi, il costo della terra è altissimo e l’acquisto è quasi impossibile. L’economia è ancora nelle mani di poche famiglie potenti: il 65% della ricchezza totale appartiene all’1% della popolazione.
Oltre ai problemi legati alla terra, le donne Maya devono affrontare la violenza di genere. «Essere donna è complicato ovunque, ma qui subiamo una doppia discriminazione: in quanto donne e in quanto Maya», sottolinea Teleguario, che in queste settimane, nel mese contro la violenza sulle donne, è in Italia per raccontare la loro esperienza. Molte delle socie hanno alle spalle storie familiari difficili che, in molti casi, le hanno portate a sposarsi e a diventare madri giovanissime. Altre hanno subito maltrattamenti. Il Guatemala è uno dei Paesi con il più alto tasso di violenza nei confronti delle donne a livello mondiale: solo nel 2023 sono stati denunciati 32mila casi.
Agricoltura Sostenibile ha permesso a molte donne di raggiungere una certa indipendenza economica. La vendita dei prodotti agricoli ha aiutato a pagare debiti, comprare cibo e medicine, e garantire il sostentamento dei figli. Alcune socie hanno avviato piccoli allevamenti di pollame, che contribuiscono a migliorare l’alimentazione, altro grosso problema nel Paese.
Grazie all’agronoma Rocío le socie hanno imparato tecniche di coltivazione sostenibile, come usare fertilizzanti naturali e praticare la rotazione delle colture per preservare la fertilità del suolo. Le donne hanno imparato anche a produrre fertilizzanti organici e a controllare le infestazioni senza ricorrere ai prodotti chimici.
«Il commercio equo non è solo un prezzo più alto per i prodotti, ma un percorso di emancipazione e dignità», sottolinea Teleguario. «Il nostro successo più grande è la dignità che stiamo riconquistando come donne, per noi e per le future generazioni».
Stefania Lastoria