Doina Matei, scatto alla libertà ed indifferenza al dolore

Barbara

L’opinione pubblica contro la killer dell’ombrello per i selfies postati negli ultimi giorni. Accanimento mediatico o un’etica violata?

La storia dietro all’omicidio di Vanessa Russo è tragicamente nota. Ma i risvolti raccontati in questi giorni dai media italiani offrono lo spunto per una riflessione diversa, che non concerne solo condanna inflitta a Doina Matei, la ragazza romena meglio nota come “la killer dell’ombrello”, ma che coinvolgono direttamente l’etica penitenziaria. Nel 2007 Doina, all’epoca già autrice di piccoli furti e madre di due figli, si rese colpevole della morte della sedicenne Vanessa Russo, aggredita a colpi di ombrello nella metrò romana. La sentenza la condannò a 16 anni di carcere, una pena ritenuta a suo tempo “giusta”, anche se non abbastanza per colmare il vuoto nel cuore dei genitori di Vanessa. Oggi quella condanna è messa nuovamente in discussione per un principio etico, più che d’efficacia legislativa. O forse entrambi, visto che la rieducazione a cui si sottopongono i detenuti nelle carceri è strettamente connessa all’atteggiamento che quest’ultimi assumono in libertà. Il caso scoppia per una foto postata nei giorni scorsi da Doina su facebook, forse scattata ingenuamente, nell’impeto di celebrare quel fazzoletto di libertà concesso alla detenuta che, scontati ad oggi 9 anni, si è potuta permettere un permesso premio a Venezia. Foto apparentemente innocenti, se solo ritraessero una persona qualsiasi in villeggiatura, ma su cui pende una gigantesca spada di Damocle trattandosi di una detenuta che sta scontando ancora la condanna. “Quanto finora letto fa rabbrividire. Siamo tornati alla caccia alle streghe. Ma è vietato sorridere? È criminale farsi fotografare?”, ha commentato Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, associazione che da 25 si occupa di garanzie nel sistema penale. Il giudizio dell’opinione pubblica è severo, insiste nel voler un atteggiamento dignitoso della condannata in toto, non sfacciatamente sereno. Un desiderio che rivela, più che per il singolo caso, la necessità di veder imposta una legge ferma, di cui si possa aver fiducia. Ma, d’altronde, è giusto chiederlo? E’ lecito desiderarlo per i genitori di Vanessa, che chiedono la condanna a morte di Doina Matei, coinvolti nel dolore della scomparsa di un loro familiare. Il ruolo del pubblico, invece, è circoscritto. C’è da considerare che, per quanto dolore ci sia dietro alla perdita e al reato commesso, il detenuto rimane un essere umano, che va rieducato, che deve scontare una pena, che può veder dimezzati o privati i suoi diritti di cittadino, ma non quelli inviolabili di essere umano. Doina è colpevole, la legge la riconosce come tale, insieme alle prove indiscutibili riprese dalle telecamere di sorveglianza, ma Doina è al contempo una persona che va reintegrata, che patirà ben oltre la sua condanna. Una volta uscita dal carcere, soffrirà il disagio di un reinserimento sociale per ciò che ha commesso. La sua pena sarà una prigione a vita, andrà oltre i 16 anni, così come ricorda nel libro scritto con Franca Leosini, La ragazza con l’ombrello. “Vanessa non aveva vissuto molti giorni felici, tutti gli altri glieli avevo tolti io. È soprattutto la felicità possibile che le ho sottratto che mi logora con tormento maggiore. Ho provato a dire alla madre, ai fratelli di Vanessa, il mio tormento, lo sgomento, il rimorso per quei suoi giorni senza futuro. Ho invocato il perdono. Non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel loro silenzi. Tocca a me comprendere il rifiuto, il disprezzo anche”. Un sorriso non alleggerirà di certo il peso che Doina dovrà scontare con se stessa, né la forza della giustizia per quelli sottratti a Vanessa.

di Barbara Polidori

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