Franco Ukmar: faccia da Django e voli d’angelo dal Colosseo

Tavani

L’11 agosto scorso è scomparso da quegli schermi di aria e muri chiamati “realtà” Franco Ukmar, una delle figure attoriali e di stunt-man più appezzate e amate – insieme ai suoi fratelli – del cinema italiano. Apprezzare e amate soprattutto dai grandi attori cui hanno fatto da spalla o controfigure nelle scene più a rischio. Attori come lui, vissuti di pane, cinema e acrobazie, hanno girato centinaia di film e costituiscono un tessuto connettivo di fondo in mancanza del quale il cinema non potrebbe neanche costituirsi. Per questo meritano un grande riconoscimento affettivo e professionale, soprattutto perché hanno lasciato un segno e un insegnamento di cui il nostro cinema continuerà a nutrirsi. Un saluto e un ciack ancora, Franco.

Di seguito quello che ci ha scritto una delle sue figlie, Daniela Ukmar. Non solo un ricordo, ma un contributo di studiosa di storia nell’inquadrare dentro la scena più generale del nostro cinema la scuola d’arte e mestiere degli stunt-men italiani.

Alla figura di mio padre Franco e dei suoi fratelli Bruno, Sergio, Giancarlo, Giovanni e Clemente e vorrei aggiungere quelle di cinquantina di altri stunt-men italiani (solo per citarne alcuni) di cui conservo viva la memoria: Alberto, Aldo, Ottaviano e Roberto Dell’Acqua, Rinaldo e Nazareno Zamperla, Renzo e Osiride Peverello, Riccardo Pizzuti, Giorgio Bastianoni, Nello Pazzafini, Giovanni Cianfriglia, Claudio Pacifico, Omero Capanna, Rocco Lerro, Benito Pacifico, Marco Stefanelli, Romano Puppo, Angelo Ragusa, Riccardo Petrazzi, Claudio Ruffini, Pietro Torrisi, Salvatore Borgese, Sergio Mioni, Aldo Canti, Mario Novelli, Attilio Severini, Franco Daddi, Bruno Di Luia, Enzo Maggio. Il mestiere di questi attori acrobati occupa indubbiamente un posto molto esteso nel cinema italiano tra la fine degli anni Cinquanta e tutti gli anni Novanta. Non solo perché gli stunt sono stati la “controfigura” di una lunghissima lista di famosi attori italiani e stranieri (che ne sarebbe, ad esempio, delle mirabolanti gag della coppia comica dei due ragionieri più famosi d’Italia, Fantozzi e Filini, senza la loro sostituzione in controcampo da parte di Clemente Ukmar, controfigura storica di Paolo Villaggio, e di mio padre Franco, controfigura di Gigi Reder?), ma ancor più per essere stati una parte fondamentale di un filone decisamente emblematico per la storia del cinema italiano: quello del movimentato cinema di genere e d’azione (peplum, ossia sull’Antica Roma, western, poliziottesco, comico, etc…), nel quale i volti degli acrobati prima citati si alternano in una quantità innumerevole di minuscole guerre: dall’antica roma ai borghi e castelli medievali, dai saloni western e nelle praterie a cavallo ai tetti di un treno in corsa o in roboanti inseguimenti automobilistici .

Scene ormai cult (valga per tutti il ciclo “Trinità” o “Django”) in cui, l’uno e l’altro, si azzuffano sospesi ad altezze rischiose o volteggiano in spettacolari contorsioni. Di un tale filone di opere cinematografiche hanno costituito il vero fulcro, muovendosi attraverso scene di azione da loro stessi ben organizzate e spesso autonomamente costruite con il benestare del regista, che quasi sempre affidava la sapiente gestione del fluire dei ciak alle loro grandi competenze “tecniche”, modellate in parte anche sulle personali maestrie acrobatiche. Mi piace ricordare, inoltre, che mio padre è stato il protagonista di una delle “cadute” più spettacolari del cinema: quella dalla vetta del Colosseo nella scena finale del film statunitense “Il Castello di carte” del 1968 (House of Cards di John Guillermin con Orson Welles, George Peppard, Inger Stevens).

di Riccardo Tavani

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