Il lotto 285 – capitolo quarantanove
Il crinale
“Racconterò quel che ho fatto, o piuttosto quel che altri hanno fatto di me.”
Stendhal
“Non importa le idee che uno ha ma quello che le idee hanno fatto di lui.”
Bertolt Brecht
Molti anni dopo avrei ammirato gli storici che nelle loro ricerche rasentavano la capziosità, i giochi intellettualistici che usavano per spiegare fatti storici che a me sembravano semplici con esempi non sempre pertinenti che erano presi da altre discipline (metodi molto in uso fra professori universitari per espandere il loro campo d’azione in conflitto con altri ricercatori).
Anch’io a volte avrei contrapposto a quell’analisi politica una presunta analisi letteraria non perfettamente adeguata a quello che si stava trattando, ma così, per sfida, trascurando nel contempo i miei reali pensieri, distorcendo a mio favore le idee altrui, senza saperle confrontare. Avrei vissuto in un limbo tra la voglia d’impegno, il riconoscimento che non ero all’altezza di quelle ricostruzioni, cui in qualche modo ero estraneo, e la mancanza di studi sistematici che mi avrebbero fatto sembrare più degno di sedere fra loro. Il mio disagio sarebbe stato a monte. Avrei preteso che il mio lavoro mi fosse venuto riconosciuto per quello che era, il frutto di ore e ore di studio e che fosse messo a confronto con quello di altri ricercatori per confermare la primogenitura a mio favore.
Perciò, per parafrasare Cervantes, non volevo inserire racconti né sciolti né attaccaticci, ma solo alcuni episodi, che di racconti avevano l’apparenza, ma fossero però suggeriti dagli stessi avvenimenti che la verità dei fatti presentava; ed anche questi brevemente, e con le sole parole strettamente necessarie ad esporli, pur avendo i mezzi, la capacità e l’ingegno per parlare di tutto quanto l’universo, chiedevo che non si sottovalutasse la mia fatica, mi si lodasse, non per quello che scrivevo, ma per ciò che non scrivevo. Come questo racconto di una battaglia aerea che mi era stato suggerito, quasi in sogno, da avvenimenti passati, di storie di eserciti e flotte aeree che si scontravano, come un vecchio resoconto di una guerra totale e senza fine.
“Vedevo formazione di nubi, e non solo di quelle, che si andavano profilando all’orizzonte. Gli eserciti erano vicini a scontrarsi come masse di lava che scendevano dalle pendici di vulcani immensi, spinti da forze ormai incontrollabili, recando fuoco e distruzione. Gli stormi fuggevoli di uccelli che si andavano delineando in cielo, venivano ben presto oscurati dal provenire di stormi ben più compatti e rombanti delle forze aeree contrapposte, in quella che fu definita la battaglia aerea più feroce e distruttrice della prima metà del secolo. Quei velivoli che cadevano sotto i colpi di mitraglia, venivano ben presto rimpiazzati da ondate successive di nuovi, neri velivoli, come soldati in una battaglia campale, anche se alcuni, cadendo, provocavano più danni di un plotone decimato dai fucili e dalle baionette, per il carico di bombe che trasportavano. Incendi divampavano su agglomerati di case, su opifici, su campi coltivati distruggendo ogni cosa e le poche vite umane che si salvavano vagavano per le strade come corpi di dannati scaturiti dall’Inferno, coi vestiti a brandelli e le facce deturpate dalle fiamme, in cerca di rifugi ormai inutili.”
Ero privo di ordini specifici su quello che dovevo fare ma mi guidava la convinzione di stare effettuando qualcosa di utile alla nazione. Sapevo che dietro di me si muovevano intrighi internazionali a me sconosciuti ma mi davo comunque da fare per eseguire gli ordini impartitimi. Uno di questi era liberare un nostro importante elemento del Comitato Centrale in cambio di numerosi prigionieri nemici. Un qualche collegamento tra i servizi segreti americani e il movimenti di liberazione mi rendeva più facili tali missioni.
Era la fine dell’estate e in una delle tante valli solcate da fiumi della vasta pianura era in corso un massiccio rastrellamento. Io e miei due compagni eravamo al comando di un gruppo di alcuni militari e rischiavamo di essere intrappolati dalle bande nemiche. La situazione era sempre più critica quando ad uno di noi venne in mente di raggiungere il crinale di una delle colline che ci circondavano. Dopo un arrancamento furioso riuscimmo a scalare l’impervio pendio e ci trovammo ben presto in cima, noi tre e il plotone di soldati al nostro comando. L’agognato crinale era una piatta lingua di terra dalla quale si dominavano le due valli. Quella postazione sopraelevata ci consentiva una doppia visuale, una quella dei battaglioni repubblichini che avanzavano da nord e l’altra quella dei partigiani che procedevano da sud. Le forze dei combattenti per la libertà erano esigue ma ben preparate, quelle delle forze nemiche più numerose perché accanto a loro operavano reparti tedeschi, più pronti ed addestrati alla battaglia. Il nostro compito era quello di segnalare le mosse dell’uno all’altro schieramento, per consentire alle nostre truppe di evitare l’accerchiamento nel caso ce ne fosse stato bisogno. Per questo uno dei militari al nostro comando era addetto all’uso di una radio da campo, elemento preziosissimo in simili frangenti. Vista la situazione, che sembrava preponderare verso un accerchiamento dei nostri compagni, istituimmo subito un collegamento con il comando dei partigiani, operativo sul fronte meridionale della collina, per avvertirli della dislocazione e dei movimenti del forze nemiche. Fu questa la mossa che ci avrebbe portato a contribuire a decidere le sorti della battaglia a nostro favore.
L’accerchiamento venne spezzato, i nazifascisti vennero attaccati con furia e successo, il Crinale aveva salvato i partigiani. Il doppio “colpo di reni” aveva funzionato.
Così, alla fine della battaglia mi venne fatto di riflettere su come tutta la vita fosse sospesa a un crinale, sul quale si dovesse scegliere continuamente fra un corno e l’altro di un problema, tra due strade ad un bivio, per decretare la nostra sorte di uomini. Questa riflessione mi avrebbe portato in seguito ad acuire la mente nei calcoli matematici per trovare la soluzione a dilemmi frequenti in quella disciplina. Anche in letteratura l’uso di una parola od un’altra porta chi scrive ad una scelta continua, con la conseguenza di un arrovellamento non molto salutare per la mente, così scarsa, il più delle volte, di comprendonio o alterata da illusorii sogni ad occhi aperti. Ma questa è un’altra questione, che attende a una disciplina nella quale, negli anni, non avrei certo brillato per competenza.
(continua)
di Maurizio Chiararia