Il lotto 285 – capitolo quaranta

“Come possiamo tenere la storia e dimenticare i fantasmi e gli incubi?”

Alessandro Portelli

Dopo quell’esperienza ci eravamo chiesti che senso avesse avuto rimanere ancora in città. Gli attacchi si erano fatti più sporadici e ben presto avevamo ricevuto l’ordine dal comando centrale di scioglie i Gap e di trasferire le nostre forze in altri luoghi, nelle zone collinari ad est della capitale. Ci eravamo dislocati accanto ad una centrale elettrica in alto, a circa 700 metri. La nostra squadra era composta da me, comandante e dalla mia compagna vicecomandante, più altri elementi  che si erano posizionati vicino ai paesi d’intorno. Avremmo dovuto  attaccare i convogli tedeschi che transitavano in quei luoghi, ma l’atmosfera lassù era un po’ diversa di quella di città. Ora dovevamo agire in zone aperte e dovevamo fronteggiare non più singoli nazisti o piccoli gruppi di soldati, ma interi reparti, ben equipaggiati, mentre noi avevamo solo un armamento leggero. Non potevamo più nasconderci in casa di amici, ma in grotte e casolari abbandonati. Per fortuna trovavamo sempre la solidarietà della popolazione locale. Di tanto in tanto, però dovevamo ritornare in città per informare il comando delle nostre operazioni. Soprattutto la mia compagna doveva fare chilometri e chilometri per andare a portare dispacci o ricevere ordini. I suoi piedi, nei pesanti scarponi da montagna, subivano dolorose piaghe che dovevano essere curate. Se non ci fossero state le sollecite attenzioni di un nostro compagno che era appena fuggito dal carcere e si trovava ancora rifugiato in città la mia compagna sarebbe stata ridotta all’impotenza e non avrebbe potuto tornare ad operare fra noi. Quel generoso compagno la aveva ospitata a casa sua ed amorevolmente le aveva guarito le ferite.

   Nel frattempo diversi gappisti erano stati catturati in seguito a delazioni o a confessioni in carcere di spie e traditori, che non avevano avuto scrupolo di segnalare gli elementi della resistenza alle autorità tedesche e agli sgherri delle squadre fasciste. Erano i primi giorni di aprile e la città era allo stremo, i viveri, e soprattutto il pane, scarseggiavano, anche se i tedeschi, per tener calma la popolazione, avevano cominciato a distribuire piccole razioni di viveri di prima necessità. Ma la protesta era esplosa lo stesso e ben presto era divenuta sempre più aspra. A questa  avevano partecipato soprattutto le donne che avevano assaltato, esasperate, i forni.  Non avevamo avuto ancora notizie di quelle rivolte se non quando era venuto da noi un compagno che era stato testimone di quei fatti. Ci aveva raccontato che la rivolta era poi dilagata nelle borgate popolari, obbligando i nazifascisti a scortare i convogli e a presidiare i punti di distribuzione. Una mattina di inizio aprile, un gruppo di donne aveva preso di mira un mulino, nella zona industriale che dava sul fiume, vicino a un ponte di ferro, dove c’era un deposito di farina per le truppe di occupazione. Le donne erano entrate, si  erano appropriate di pagnotte e di qualche sacco di farina, ma una spiata aveva fatto arrivare una pattuglia nazifascista. Nel fuggi fuggi generale, dieci di loro erano state uccise.

   Il 3 maggio, dalla parte opposta della città, in una zona di caseggiati popolari di recente costruzione, che ospitavano molte famiglie che venivano dal centro della città da dove erano state espulse in seguito agli sventramenti di interi quartieri operati dal regime per costruire massicce costruzioni e viali inneggianti a quell’Impero di cartapesta, un gruppo di donne stava ritornando alle proprie abitazioni con le borse piene di pane prelevato dopo un assalto a un forno, ma erano state individuate e fermate da una pattuglia della polizia fascista. Essendosi rifiutate di riconsegnare il prezioso carico i militari avevano cominciato a sparare e uno di loro aveva colpito a morte una donna, madre di sette figli. La donna era  stramazzata a terra, cadendo sopra la figlioletta lattante che aveva in braccio. La bambina era sopravvissuta, ma aveva avuti la spina dorsale lesionata.

   Questo era stato il triste racconto che ci aveva fatto il nostro compagno che, fra l’altro, essendo poeta oltre che partigiano, ci aveva detto di aver scritto una dedica epigrafica, su di un semplice foglio cartone,  che aveva poi lasciato sul marciapiede dov’era caduta la donna:

“Qui i fascisti hanno ammazzato/Caterina Martinelli/Una madre che non poteva/sentir piangere dalla fame/tutti insieme/i suoi sette figli”(…)”.

   Avevamo riflettuto poi, con dolore, io e la mia compagna di lotta, su quante donne e madri erano state uccise in quella insana guerra dalla violenza nazifascista.

“… perché la primavera ha sparso la voce/che, solo appena torni il bel tempo, /si potrà vincere la morte/con lo sforzo della resurrezione.” Borìs Pasternàk Poesie di Jurij Zivago (trad. di Mario Socrate), Prima edizione mondiale, Feltrinelli 1957

(continua)

di Maurizio Chiararia

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