La cicatrice amara

I racconti dietro la mascherina.

Del lockdown, passando alla fase 2, a lui era rimasto il down. Depressione, smarrimento, disperazione. Donato era andato giù, e continuava ad andarci. Come il sacco nero con un cadavere calato da un cavalcavia sulla sterpaglia sottostante. Aveva pensato davvero di fermare l’auto proprio tra i due piloni più alti, scavalcare e buttarsi giù. Ma da quel punto dell’autostrada si vedeva bene nel tramonto la casa di suo fratello Aldo, isolata nella campagna circostante il paese dove entrambi erano nati. Lo stava aspettando per cena. Era la prima volta, dopo tutto il tempo inchiavardato nel corpo e nel cervello, che riprendeva l’auto e usciva dalla città per recarsi a trovarlo. In lontananza si vedeva anche l’aeroporto militare della zona. Aldo vi aveva fatto il corso da ufficiale di leva, effettuando anche lanci con il paracadute. Donato, invece, non ne aveva avuto mai il coraggio. Adesso, però, sentiva dentro di sé sia il vuoto che c’è sotto un aereo, sia il precipitarvi del suo peso morto. E quella strada poi: pochi ma tormentosi chilometri di tutti gli errori compiuti a ritroso nella memoria.

Uscì dall’autostrada e si mise sulla provinciale in direzione del paese natale. Subito s’incontrava il bivio che portava a un’altra località. Lì c’era anche la pensilina di una fermata delle autolinee regionali, con alcune persone in attesa. Donato si fermò per dare la precedenza a un’auto che già stava girando a sinistra per imboccare quella strada. All’improvviso, però, la vettura si arrestò bruscamente proprio in mezzo al bivio, si aprì la portiera destra, ne uscì urlando una donna in minigonna, capelli a caschetto scuri, con occhiali da sole in faccia e la borsetta al braccio. “Vattene, vattene, – urlava la donna – lasciami qui!”. Appena vide la macchina di Donato, la donna corse verso di essa, aprì la portiera e si sedette dentro, bloccando l’apertura. “Parti, parti, ché questo è un matto!”. Donato innestò la marcia sgommando contromano a razzo, sterzando con le gomme fino al ciglio erboso della strada, per aggirare sia la vettura ferma, sia l’uomo che si era scagliato fuori di essa per bloccarlo. Schiacciò poi l’acceleratore a tavoletta lungo il rettifilo di diversi chilometri che si apriva davanti al parabrezza, tenendo d’occhio lo specchietto retrovisore. Un autobus di linea era intanto arrivato al bivio, rimanendo  bloccato dalla vettura in mezzo alla strada. Il suo autista era allora risalito in macchina, sgommando anche lui prima di andarsene per la sua strada.

“Se n’è andato, stia tranquilla, adesso dovrebbe però sedersi di dietro – disse Donato alla donna – e mettere la mascherina, signora”, indossando lui la sua. “Macché signora! – sbottò lei, togliendosi le lenti scure dal viso – Certo, tu non sei cambiato per niente, Donato!”. Lui rallentò, cercò di guardarla, ma scorgeva nello specchietto che l’autobus di linea gli era quasi attaccato dietro, proprio come nel film Duel! Donato rallentò, innestò la freccia, accostandosi il più possibile a destra, facendo segno al conducente con il braccio fuori dal finestrino di passare. Questi attese che una vettura in direzione opposta liberasse la corsia, poi lo sorpassò pigiando ripetutamente sul clacson, mentre alcuni passeggeri urlarono fuori dalle aperture dei finestrini: “Puttana! Coglione!”. Subito dopo  un’ampia curva vide un piccolo spiazzo sterrato sulla destra per l’ingresso a un campo di girasoli, vi entrò, fermandosi con il motore ancora acceso. Lei premeva con un dito sulla guancia sotto l’occhio sinistro: “Adesso mi riconosci, Donato?”. Gli stava mostrando una piccola cicatrice sulla pelle ambrata. Lui sgranò gli occhi, sentendosi all’improvviso come afferrato per i piedi e trascinato giù nell’abisso della memoria. “M…ara…, sei M…ara!”, smozzicò il suo nome lui. “Sì, sono Mara, mi vedi così cambiata?”. “No… è che… tutto m’aspettavo…”.

Lei gli mise una mano dietro la nuca e lo baciò sul collo. Lo strinse a sé, con la bocca premuta sulla sua spalla. “Ti ricordi – gli sussurrò – quanti anni avevamo?”. “Sei anni”, sospirò lui. Nell’afa del pomeriggio estivo, seduti sui primi gradini nella penombra dell’androne, lui le stava mostrando le sue figurine dei calciatori. All’improvviso lei lo baciò e lui rimase con gli occhi sbarrati su quella sua cicatrice così dentro al suo sguardo. Lei aveva tentato di cavalcare Lappi, un docile cane del vicinato con cui tutti i bambini giocavano. Questi all’improvviso si era voltato e l’aveva morsa sul viso. Così fu per lui quel bacio di lei: un morso inaspettato. Lasciò cadere le figurine e scappò piangendo su per le scale, chiamando sua madre. Non l’aveva riconosciuta, perché l’immagine del suo viso gli era rimasta sempre confusa nel ricordo. Non però quel bacio, quella cicatrice. Aveva sempre desiderato ritrovarla: nel sogno, nell’inconscio, nella disillusione di una vita. E l’aveva  in effetti rincontrata anni prima, ma solo in un romanzo spagnolo, Il maestro di scherma. La misteriosa schermitrice Adela de Otero, con una cicatrice sul volto, per Donato era senz’altro lei: Mara Cameli.

“Perché non ti ho più rivista?” le domandò. “Quando ci cacciarono tutti da quel palazzo per una lottizzazione del proprietario, tu sei andato a vivere in un altro quartiere. Mio padre, invece, si fece trasferire dall’Aereonautica in un’altra città”. “Da quando sei tornata?”. “Da un po’…”, alzò le spalle lei. Lui le sfiorò la cicatrice con le dita. Ora desiderava baciare Mara, ma a lungo: per tutto il tempo e il senso di perdita da dissolvere tra loro. Lei se lo strappò di dosso: “Aspetta, Donato, ora è meglio che te ne vai, quello torna a cercarmi”. Lui la guardò sgomento. Lei aprì la borsetta, ne estrasse il telefono e un orologino dorato. Girò per un po’ il caricatore, poi glielo porse. “È autentico, dovevo ripararlo, ma te lo regalo. Ho messo la data e questo istante di oggi, non spostarlo più, è il mio talismano contro ogni brutto contagio”. Mara scese, attraversò la strada e si mise ad aspettare sul ciglio opposto, indossando anche lei una mascherina. Un’auto con un uomo a bordo si fermò, lei salì sul sedile posteriore, salutando Donato col soffio d’un bacio sulle dita. Sparirono subito dietro la vicina curva che la strada faceva prima del ponte sul fiume. Il down, la rabbia, la storditezza erano ora immobili, come tutto il tempo ritrovato su quella cicatrice amara.

di Riccardo Tavani

 

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