Il lotto 285 – capitolo ventitré
“Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa dove si vada.
Wolfgang Goethe
Finalmente arrivati di fronte al palazzo, accostandomi al portone alzai scherzosamente il batacchio appeso alle fauci di un leone di bronzo e, facendolo sbattere più volte sul tassello in basso, e, visto che nessuno faceva segno di aprire, volli far notare alla mia bella che il palazzo era quasi del tutto disabitato o, se qualcuno ancora vi fosse stato nessuno avrebbe aperto, per paura di qualche visita spiacevole. Quindi presi la chiave dalla tasca, la misi nella toppa e, dopo aver fatto passare cavallerescamente avanti lei, entrai anch’io, ma subito dopo mi sovvenne che il galateo e il buon senso consigliavano che, per non mettere in pericolo la persona vicina, sarebbe stato meglio se fossi entrato io per primo.
Una volta varcata la soglia, e passati per un atrio stretto e lungo, ci dirigemmo verso l’ascensore. Era una piccola cabina protetta da una grata di ferro ed era al piano terra, ma constatammo che era inattiva, forse perché, con le continue interruzioni di corrente dovute ai frequenti bombardamenti, era da evitare di salirvi per il rischio di rimanere imprigionati. Prendemmo quindi le scale e faticosamente arrivammo all’ultimo piano. Vedemmo che comunque le scale proseguivano per un tratto e arrivavano alla terrazza che per noi sarebbe servita come sicura via di fuga, in caso di pericolo, per i tetti.
La porta di casa fu aperta non senza sforzo perché le serrature erano pesanti e mal oliate. Le stanze erano fredde ma nel soggiorno c’era per terra uno scaldino elettrico di pietra con la resistenza a spirale che, avvicinando un poco le mani al filo incandescente, ci avrebbe consentito di sentire un lieve tepore, ma era spento.
Mi ricordai che da bambino, nella casa dove ero nato, c’era uno strumento simile sempre acceso e una volta, inciampando su di esso, mi ero procurato una scottatura alla caviglia il cui segno mi era rimasto per molti anni. E ricordo ancora che ai piedi del mio lettino c’era un vasetto di ferro smaltato con il manico, che costituiva il mio trono personale in quanto mi veniva fatto usare molto frequentemente per evitare di bagnare il letto, perché i medici avevano detto che soffrivo di “enuresi notturna”, terribile espressione per le orecchie di un bimbo di quattro-cinque anni, e per quella che mia madre chiamava “la sciolta”, cioè la mia frequente necessità di defecare.
Questi ricordi (almeno i miei) non ci avevano dato il tempo di realizzare dove ci trovavamo ma ben presto mi sentii di nuovo a mio agio in quella dimora da cui mancavo da diversi mesi e che ora mi sembrava non vi avessi mai abitato. Non c’era una vera e propria sala da pranzo ma un largo salone che dava su una cameretta occupata da un ampio letto ed alcune scansie piene di libri, una sala di sgombro e una stretta cucina che conteneva un ripiano con un lavabo (senz’acqua), una piastra a gas anch’essa priva di erogazione, una ghiacciaia, un tavolo con tre sedie e due credenze. Le finestre del salone davano su di un balcone che si snodata lungo tutto il perimetro della casa, pieno di piante e fiori poco curati e quasi rinsecchiti. Le finestre della cucina davano su un cortiletto su cui si affacciavano numerosi ballatoi pieni di panni stesi. Ma la casa aveva anche i suoi pregi, specialmente il salone, arredato con cura da massicci mobili antichi, con quadri di pregio alle pareti e vetrine piene di ninnoli di porcellana e d’argento.
(Forse durante questa narrazione mi sto dilungando troppo in particolari, così, all’interno delle lungaggini, cercherò di essere sintetico. Non andrò quindi oltre nel descrivere la casa per tornare a raccontare le tortuose vicende dei protagonisti, ed anche se le tortuosità possano sembrare eccessive, mi limiterò ai pochi fatti più significativi per non appesantire l’attenzione dei lettori che si aspettano, specie in un racconto di guerra, un linguaggio più scarno ed essenziale.)
Eravamo già a sera inoltrata. Fuori i lampioni lottavano contro il buio di novembre, tra i rami contorti degli alberi spogli. Il vento d’autunno si infilava gemendo nelle fessure delle finestre sconnesse. Ci accomodammo nel salone, tentando di accendere lo scaldino ma la presa non funzionava, forse per mancanza di corrente nel palazzo o forse perché difettosa. Per evitare un corto circuito che ci avrebbe ancora di più danneggiato staccammo la spina e ci guardammo intorno in cerca di coperte. Ne trovammo nell’armadio all’ingresso, le adagiammo sul letto spoglio, vi ci infilammo rapidi sotto e, cercando di riscaldare col calore del nostro corpo almeno la tela del lenzuolo, e attendendo che gli spessi strati di lana che ci avevamo posto sopra facessero altrettanto, ci addormentammo come di sasso.
La mattina dopo, svegliandoci, realizzammo di essere finalmente al riparo, anche se ancora intontiti dal sonno e dalla stanchezza. La mia compagna si muoveva con agilità, nonostante i piedi ancora gonfi, e si diresse verso la cucina in cerca di qualche cibo in scatola, unica risorsa in quei tempi di carestia che avevamo raccattato per terra dopo i lanci degli aerei alleati. Ci sembrava di essere, più che cospiratori, una coppia di fidanzati (o di sposi novelli) che avessero preso possesso del loro appartamento nuziale, ma ben presto ci rendemmo conto della precarietà del luogo, nel cuore della città occupata, e della nostra condizione di combattenti senza armi (a parte la mia pistola) e isolati dal resto del gruppo. Eravamo quindi, con un’espressione francese ispiratami dalla mia compagna, “dans un cul de sac”, o “de lampe”, secondo una versione che ci sarebbe stata più tardi attribuita. Ma non ci perdemmo d’animo e ci munimmo presto di una cartina che si trovava fortunatamente in un cassetto che ricordavo e cercammo di disegnare una mappa delle possibili zone di intervento da concordare con gli altri quando ci saremmo incontrati. Dopo quella ricerca ci sentimmo in una condizione quasi surreale di sospensione del tempo, ci guardammo come smarriti e infine ci sedemmo, con le braccia chiuse intorno alle ginocchia, sul freddo pavimento della camera, senza parlare. Avevamo poco da dirci, ognuno di noi due aveva ancora in testa e sul corpo il peso delle passate vicissitudini, pensavamo solo a districarci da quella passività per noi inedita, vista la nostra determinazione ad intraprendere ciò che ci eravamo prefissi, cioè la lotta armata contro l’occupante. E da quella condizione di inerzia volli sollevarmi per primo e mi avvia verso la biblioteca che mi era familiare e che custodiva buona parte del mio, ancora scarso, sapere.
Presi un libro a caso da uno scaffale: erano gli “Elementi” di Euclide, uno dei primi libri che avevo acquistato, appena quindicenne, già spinto da quella volontà di conoscere il mondo dei numeri che avrebbe caratterizzato tutta la mia vita. Era un minuscolo volume con le pagine ingiallite, probabilmente un compendio della corposa produzione del valente scienziato. Lo aprii e, fra le pagine notai un insetto, cosiddetto bibliofago, schiacciato e morto, che interpretai come presagio di sventura mentre per molti doveva essere portatore di buona sorte, forse ricordando l’Eden dove quella creatura primigenia era per la prima volta comparsa. Ma mentre chiudevo e riponevo, ancora frastornato dalla scoperta, il libro e scorgendo un altro di quegli animaletti correre sul bordo dello scaffale e rifugiarsi fra i volumi non mi avvidi (devo dire, per precisione, che l’appellativo di quell’insetto, identificato erroneamente come la tignola, mi sarebbe stato appioppato, declinato al maschile (il Tignola, appunto) qualche mese dopo dai miei compagni e detrattori, forse per la mia inafferrabilità nelle fughe o per la mia tenacia nel rosicchiare (divorare) le pagine dei libri e qualsiasi altra cosa che avesse un aspetto cartaceo, o forse solo per la mia maniacale fermezza nel sostenere le mie idee), non mi avvidi, dicevo, di un leggero tremito degli scaffali e degli infissi sconnessi delle finestre. Erano i carri nemici che passavano indisturbati per le vie del centro, ma il loro rombare era stavolta attutito, quasi impercettibile, visto lo spessore dei muri dei mio e degli altri palazzi della zona o forse per l’alta posizione che occupavamo. Ma proprio in quel momento, percependo quel sinistro rombare, ci ricordammo della nostra missione e che era arrivato il giorno, ed era vicina l’ora in cui ci saremmo dovuti ricongiungere con i nostri compagni nel luogo stabilito e lì formare le squadre, per usare un’espressione calcistica.
Ci vestimmo, quindi, questa volta da civili, per quanto la penuria nel guardaroba lo consentisse. Lei smise la sua logora divisa da contrabbandiere indossando una semplice camicetta, una gonna svasata al ginocchio, una giacca attillata e robusti sandali ai piedi, mentre io mi cambiai semplicemente d’abito. Quindi uscimmo in fretta e, dopo aver fatto sfilare i carri per lo stradone in salita, ci avviammo.
Le strade e le piazze erano deserte ma all’improvviso vedemmo un paracadutista nemico che risaliva lentamente lo stradone, col fucile mitragliatore nelle mani, guardingo, e poi scendere a un tratto da una vettura un vigile del fuoco che gli scaricò sul corpo una raffica di pallottole. Il soldato ebbe il tempo di alzare appena le braccia, di frullare le ali come un uccello e cadde morto.Ci rendemmo conto, quindi, che la nostra battaglia, fino ad allora incruenta, si faceva da quel momento più aspra e decisiva.
di Maurizio Chiararia
(continua)