Ma Loute

Tavani

Non ci facciamo mai attenzione, perché il paesaggio in cui è ambientato un film ci appare come un che di oggettivo, di dato, come il mondo intorno a noi nella realtà. Spesso però il paesaggio cinematografico gioca un ruolo da protagonista, come fosse un vero attore. È il caso di Ma Loute. Il vero personaggio di questo film è una baia. Baia de La Slack, in un tratto di costa frastagliato, più a nord ancora della Normandia, a ridosso della Manica, che si chiama Côte d’Opale. È il limitare di terra e acqua, fango e sabbia, deformità umana e splendore naturale nel quale è nato Bruno Dumont, l’autore di questa pellicola che è stata a un passo dal vincere Cannes 2016. Una baia in cui si svolge una singolare – drammatica e grottesca insieme –lotta di classe “a morsi” tra pescatori e svalvolati nobili decadenti. Forse per tutti noi la terra nativa, anzi la nascita stessa è un limitare tra il mistero dell’esistenza e il contrasto tra la bellezza, il tragico, il comico, il grottesco, la bassezza, l’anelito al volo sopra ogni cosa. Un limitare che non separa però gli elementi ma –come in questo tratto di costa – lascia entrare gli elementi – terra, mare, fango, uomo, animale, sole, nubi, miseria, ricchezza – uno nell’altro. Un confine incerto e indecidibile, come quello che passa geneticamente dentro un androgino, un bisessuato, un’ermafrodita. Una frontiera di antagonismo, lotta naturale, sociale, culturale tra inconciliabili diversità. Il film è ambientato nell’estate del 1910, ad appena qualche anno dal primo grande conflitto e massacro mondiale del 1915-18. Ma Loute, il nome del giovane pescatore e traghettatore, richiama per assonanza il francese ma lutte, ossia: “la mia lotta”. Sugli antagonisti, quelli della disprezzata famiglia nobiliare decadente Peteghem, lui gli sputa con astio e disprezzo dietro.Ogni personaggio entra nella cornice più grande del personaggio-paesaggio, attraverso una sua deformità fisica o fissazione mentale, o entrambe le cose insieme, come dentro un’orchestra dissonante che il direttore – il regista – non solo rinuncia a ricondurre a un’armonia generale ma lascia volentieri che a esprimersi sia proprio il cantar ringhiando d’ognuna delle sue antro-bestie, il sopra le righe, il fuor d’opera d’ognuno dei suoi orchestrali, soprattutto le prime file. I marmocchi della famiglia Brufort non mangiano solo cozze, nelle loro pentole la mamma mette a bollire anche altro; dalle loro labbra, dal loro mento cola sempre un certo strano sugo rosso. Ma Loute Brufort non usa i remi solo per vogare e nelle reti non mette solo pesci. Il vero mistero non sono però le sparizioni seriali umane per i due flic che a un certo punto appaiono nel film: il grosso grasso Commissario Machin e il suo silenzioso aiutante Malfloy. Come Stanlio e Ollio – dai quali sono scopertamente ricalcati per essere traslati in chiave grottesca – per loro il mistero non può mai essere poliziesco, ma riguarda la stranezza, la paradossalità delle esistenze individuali. Come quella di Billie: che cambia abito, pettinatura, volto, movenze: è filleo garçon, ragazza o ragazza? Il rude ringhiante Ma Loute perché s’innamora a prima vista d’elle-il,lei-lui, perché non può più fare a meno dei suoi baci? La furia degli elementi, il vento della passione sembra travolgere, perdere i due giovani, però è quasi un riscatto per l’umanità-animalità strisciante, rotolante attorno a loro. Così soffia radente la brezza di mare sulle vaste spiagge della costa e i personaggi cominciano a elevarsi dalla loro melmosa meschinità, prendono letteralmente, improvvisamente il volo, come fossero davvero – per rifarsi al titolo di un grande caso letterario italiano – dei Porci con le ali.

di Riccardo Tavani

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