Le cicatrici della storia

Roma liberata. Piccoli fatti di uomini e donne che nei giorni dell’occupazione nazista hanno scritto pagine di storia spesso con la morte

Una città, nasce, vive, muore. È quasi un ritmo biologico. Roma è nata vissuta e morta, molte volte nel corso della sua storia. Ma è sempre risorta. Nerone ci provò con il fuoco ma lei è rinata più forte.

L’esistenza delle città è fatta dalle vite dei suoi abitanti. È fatta dai frammenti di esistenza di ognuno di essi. Una città ha i suoi ricordi belli e brutti. Ha i suoi dolori, ha i suoi mali, ha i suoi amori, ha i suoi odi. È difficile possederla è difficile liberarsi di lei. Può essere gelida e senza anima, può essere materna e tenera amante. Dire “Roma città eterna” racchiude tutto questo.

Roma respira di episodi, di fatti vissuti e raccontati. Storie che si raccontano in famiglia. Storie che i nonni raccontano ai nipoti. Storie che non hanno mai lasciato l’inchiostro sui giornali.

Sono queste storie, quelle che non si leggono, quelle che si ascoltano solamente che hanno fatto respirare Roma.

Sessanta anni fa Roma ha vissuto la sua morte e la sua rinascita. Erano i giorni dell’occupazione nazista, 271 giorni in cui la città ha vissuto il suo coma. Immobile ma ancora con un alito di vita.

271 giorni di odio e di rappresaglie, di fucilazioni e di torture. La misero in ginocchio, la umiliarono, la sfregiarono, la oltraggiarono, ma non cedette. Duecentosettantuno giorni di agonia e i suoi abitanti la difesero anche a costo della loro vita.

Era il 5 giugno 1944, Roma viveva il suo primo giorno di città liberata. Si festeggiava per le vie del centro, gli uomini della Quinta armata americana entravano in città. Ma l’odio per chi aveva violentato la città ancora c’era. Zona nord di Roma, una colonna tedesca composta da camion, blindati e due carri armati, lascia la statale Flaminia e prende la provinciale Tiberina. Vanno a Nord passando per la sabina. Mentre si ritirano disseminano mine e distruggono ponti e strade, con lo scopo di rallentare l’avanzata degli americani. Ai romani questo ultimo sfregio non va giù. Un gruppo di uomini della “Banda Roma” li attacca, all’altezza della tenuta agricola Piccirilli. Erano le 10 di un assolato mattino di giugno quando l’inferno si scatenò sulla polverosa Tiberina. La piana del Tevere si riempì del crepitio delle mitragliatrici e dei cupi e forti botti delle esplosioni.

La lotta era impari. Difficile contrastare il ritiro tedesco.

Ma che senso aveva, il primo giorno di liberazione uno scontro così furioso e così sproporzionato? Forse era la città che usciva dal coma, che riprendeva a respirare, a vivere e che non voleva lasciare andare chi l’aveva sfregiata nell’anima. Le pallottole non riuscivano nemmeno a scalfire la corazza dei carri armati, dei mostri di acciaio i temuti carri “Tigre”. Non era uno scherzo fermarli. Erano quasi invulnerabili.

Felice Rosi un ragazzo romano di diciannove anni ci volle provare. Striscia sulla polvere della strada, sotto il fischio delle pallottole, stringendo nelle mani due granate. È intenzionato a piazzarle tra i cingoli del “Tigre”. Ci arriva, le piazza, esplodono, ma nulla. Il carro ancora muoveva seppur lentamente. Felice decide di riprovarci. Riparte strisciando con altre due granate in mano. Il panzer tedesco comincia a sventagliare con le sue quattro mitragliere. Felice non fa in tempo ad arrivare, viene colpito a morte. La colonna continuò a ritirarsi lasciando il ragazzo in una pozza di sangue. Il suo corpo venne portato nel vicino cimitero di Prima Porta, steso su un freddo tavolo di marmo, dove un gruppo di donne lo ricompose, gli lavarono la faccia e lo pettinarono dolcemente, risistemandogli la giacchetta sul martoriato petto del povero ragazzo. Erano le 11 di un assolato mattino di giugno, era passata un’ora dall’attacco. Era sempre il primo giorno della liberazione.

Le cicatrici Roma le porta ancora, dicono quante volte è morta ed è rinata. Sono le cicatrici della storia.

 di Fabio Scatolini

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