Il lotto 285 – capitolo ventiquattro

Preghiera al Salmo 74 –  (73) – “Padre, noi vorremmo soprattutto adorarti e cantarti; invece guarda in che stato siamo: Una storia che continua ad essere sempre uguale, una storia di persecuzioni e oppressioni e violenza, come un Tempo, come sempre; ma tu Dio, fa’ onore alla tua alleanza, non respingere chi ti invoca: non scordarti mai dei poveri e sii tu la loro forza di ribellione, la forza per fare giustizia. Amen”.

Une Mulhousienne

Quando uscimmo il sole era appena spuntato ma i suoi raggi, nascosti da una spessa coltre di nubi, illuminavano debolmente il nostro cammino ed ancor più debolmente scaldavano i frettolosi passanti con i loro cappotti e baveri alzati.

Mentre camminavamo per raggiungere il posto concordato mi accinsi a raccontare, non senza una certa reticenza, alla mia bella, che alzava gli occhi a tratti nell’ascoltarmi, la mia non ancora conclusa ricerca della Sapienza e come forse mi fossi perso in quel sogno. Ma come sapevo quella ricerca era legata ad un’altra, anch’essa ispirata dalla fantasia di un dormiente, e cioè quella legata all’introvabile (finora) Lotto 285.

Con brevi accenni e senza dilungarmi in particolari, le descrissi la mia avventura nella campagna laziale, al ritorno dalla mia fallita missione di raggiungere le linee del fronte a sud del fiume che non avevo potuto attraversare. Lei mi guardava con occhi stupiti e ogni tanto mi chiedeva delle spiegazioni su qualcosa che neanche io avevo bene inquadrato, e se avessi vissuto veramente quelle peripezie.

Ci sembrava che fosse giusto rimanere fedeli a quella fontana che ci aveva visti per la prima volta aggregarci insieme, ma questa volta volemmo cambiare il luogo dell’incontro, per motivi si sicurezza. Sapevamo che qualcuno di noi aveva partecipato ad almeno due azioni contro la milizia, una delle quali molto eclatante e pericolosa, nella quale un milite era stato ferito gravemente e una del gruppo degli attentatori, la prima donna a partecipare ad azioni di fuoco, era stata colpita, per fortuna solo di striscio, e ad una seconda, nella quale era rimasto ucciso un capitano di quel corpo. Quindi vi era il forte pericolo che i componenti del commando potessero essere stati individuati. Per non rischiare quindi avevamo deciso di trovarci in un altro luogo, sempre centrale e frequentato, e sempre abbellito da una fontana.

Il sole era già alto e le nubi quasi scomparse (anche se il freddo continuava a farsi sentire), quando io e la mia compagna arrivammo a una piazzetta  con in mezzo una fontana, all’interno del Ghetto. Dopo poco ci raggiunsero gli altri sei. Venimmo a sapere che ci aveva lasciati, per andare, essendo lui militare, anche se in congedo, sulle montagne, per ricongiungersi all’esercito che già combatteva su quel versante. Con un po’di rammarico realizzai che non avrei mai saputo quale fosse stato il suo segreto, né lui avrebbe mai conosciuto le mie disavventure. Ma un altro compagno, che proveniva da un gruppo di partigiani che operava anch’esso sui monti, l’aveva sostituito, e noi fummo felici di abbracciare il nuovo arrivato. Notammo che così avevamo mantenuto il numero di otto e per di più formavamo quattro coppie, essendo due degli sconosciuti che avevamo intravisto nel rifugio, delle donne. Era quello che tacitamente avevamo auspicato, cioè che anche le donne facessero parte, in numero pari, del gruppo di fuoco.

Ci mettemmo quindi tutti seduti in cerchio sulla bassa balaustra in ferro battuto che contornava la fontana, come dei bravi cavalieri della Tavola Rotonda, senza stabilire chi di noi fosse Artù, o Lancillotto, o Ginevra ma con gli stessi ideali di quei valorosi, e col proposito di combattere contro l’ingiustizia e per onorare con le nostre gesta il segreto e struggente amore che provavamo per le nostre belle dame. Come in un sogno, ma sempre attento ai  segnali che mi venivano dalla mia osservazione scientifica,  notai che formavamo esattamente un cerchio, e che il cerchio era la figura geometrica che indicava la perfezione e conteneva gli elementi, cioè i punti della circonferenza, tutti uguali fra loro. Così  stabilimmo che nelle coppie non ci dovesse essere nessun capo e nessun gregario, perché ciascuno di noi si batteva in prima persona per una sua personale aspirazione, cioè battere il nemico occupante.

La fontana era una delle più belle e insolite della capitale. Era formata da una grande coppa centrale ,dalla quale usciva uno zampillo, sostenuta da un pilastro sbalzato con intorno quattro coppe a forma di conchiglia che ricevevano l’acqua e, cosa curiosa a vedersi, quattro statue di giovinetti che scherzavano e cercavano di prendere delle tartarughe fuggiasche. La giocondità di quelle figure infantili ed i giochi d’acqua intorno ad esse,  infondevano, a noi comuni spettatori, nuova linfa per stare ben saldi nel progettare ed eseguire le nostre azioni pericolose.

Visto che ci trovavamo (non a caso) nel Quartiere Ebraico, e ricordandoci della tremenda razzia avvenuta a metà ottobre in questi luoghi ai danni di famiglie di innocenti civili, solo perche’ portatori di una fede diversa, decidemmo di vendicare quell’atto proditorio.

Ma chi e che cosa colpire? Quale poteva essere il giusto obiettivo? Io ero dell’avviso che in quella fase, visto lo spadroneggiare delle truppe nemiche nella citta’, fosse preferibile orientare le nostre forze per colpire, in primis, quelle truppe, anche se ben armate ed in numero preponderante, sia mettendo fuori combattimento i loro mezzi di trasporto, sia aggredendo i soldati e gli ufficiali nei loro luoghi più frequentati.

Così cominciò la nostra avventura, la cui causa, se prima ci aveva visti affrontare da soli il pericolo, ora diventava comune, cementati come eravamo da quel patto stretto fra noi in quei giorni di fine novembre davanti a quegli allegri zampilli. E fu in quel frangente che decidemmo di dare un nome a quell’accolita di ribelli, e di darcene uno ciascuno, o di piu, come nel mio caso, che sarebbero serviti, in più circostanze, da copertura.

Nacquero cosi i “Gruppi di azione patriottica”, nome che suonava un po’ come “Per il re e per la patria”, di derivazione fascista, ma in effetti il paragone non era del tutto sbagliato perché al momento combattevamo fianco a fianco con un esercito che, seppur sbandato e con un re in fuga, manteneva ancora l’appellativo di “regio”, e soprattutto per una patria da liberare dal giogo straniero.

Cosi ci alzammo e ci avviammo, al calar del sole, verso i nostri rifugi. L’aria era fresca, il cielo si era schiarito, e la luce crepuscolare che ancora indugiava si accresceva dei raggi di una recente luna che aveva ormai quasi raggiunto i tetti delle case.

di Maurizio Chiararia