Che suono fanno le piante?

Un sassofono, un handpan, poi una tastiera e un basso. Una batteria, un sax contralto. Poi un cipresso e un pero. Che più che semplici strumenti, erano veri e propri musicisti. Era questa la particolare formazione che lo scorso 27 luglio, all’Orto Botanico di Roma, ha suonato per l’evento “La musica segreta delle piante”.

Una serata magica, un rifugio naturale e artistico nel cuore di Roma, a due passi dalla movida di Trastevere e dal traffico del Lungotevere. “Ci sono le piante, c’è il terreno, ci siamo noi con i nostri strumenti – ha spiegato Giancarlo Russo, curatore del progetto – ci siete voi con le vostre voci, con i vostri cuori che amplificati sarebbero una batteria, con i vostri respiri che sarebbero un flauto. Ogni corpo, qui dentro, produce una vibrazione, una musica”. E oltre ai musicisti, alla Living Chapel che creava armonie jazz con lo scorrere dell’acqua, ai gabbiani e ai pappagalli, alle cicale romane, i veri protagonisti sono stati tronchi, foglie, rami. Tutto grazie alla tecnologia di Plants Play, uno strumento poco più grande di una conchiglia, capace di rilevare i flussi elettronici che scorrono dentro le piante.

Il progetto ha preso vita grazie a Edoardo Taori e Federica Zizzari. Accademia di Belle Arti e restauratrice a Bologna lei, studente di musicologia a Roma di giorno e produttore di musica elettronica di notte lui, un futuro che non era al centro e nemmeno al nord: era in Salento. “I ritmi della città erano troppo stressanti per noi – hanno raccontato in una piccola serie sul loro canale YouTube – e si preannunciava una vita con un mutuo di 40 anni per vivere in una casetta nel caos romano”. Quindi la scelta della campagna, l’amore per la natura, viaggi in giro per il mondo, un documentario e un libro, “Viaggiando nel canto degli alberi”. La loro storia inizia a fare il giro del mondo e soprattutto dei social: “Con il tempo molte persone hanno iniziato a scriverci per invitarci nelle loro città, nei loro paesi: volevano sapere che suono facevano le piante che amavano. Ma per noi era impossibile”. Così nel 2016 inizia a prendere forma il progetto Plants Play: prima il rifiuto da parte di un bando regionale, poi l’aiuto di alcuni famigliari (“zia Antonella e mio fratello Christian, i nostri veri business angels”, spiega Federica), infine gli interminabili tempi della burocrazia italiana (“40 giorni per creare la start-up e 76 firme”). Nel team che ha creato Plants Play ci sono Marco Bertola, coordinatore del Master in Ingegneria del Suono e dello Spettacolo all’Università Tor Vergata e l’ingegnere informatico Andrea Scuderi, c’è il digitale 3.0 e la tecnologia più recente, che “deve unirci alla natura e non separarci da essa”.

Ma nel pratico, come funziona Plants Play? Grazie a due elettrodi adesivi, che vanno applicati sulla pianta, il dispositivo riesce a captare la variazione di impedenza elettrica del vegetale. Il processore centrale, ad ogni variazione, assegna una nota che, attraverso un’applicazione su cellulare, può essere suonata da diversi strumenti. La pianta diventa quindi il compositore, il generatore delle note, lo smartphone è l’esecutore, lo strumento e infine l’essere umano è il direttore d’orchestra, che decide quali scale può usare, quali sonorità e quali melodie.

All’Orto Botanico di Roma, a dirigere il pero e il cipresso c’era Simone Salza: “Mi è capitato anche di suonare e dirigere un olivo, sempre qui. Mentre il programma traduceva gli impulsi elettrici, alla sua ombra c’era una bancarella, di una signora che vendeva alcuni oggetti. La pianta sembrava interagire con lei, sembrava volergli parlare”. E i suoni delle piante cambiano in continuazione, quando un animale gli si struscia contro, quando un essere umano li tocca, quando un uccello si posa sui loro rami. Cantano insieme al vento, si chiamano tra loro dentro una foresta o tra i filari di un orto, trattengono il fiato sotto il sole e si lasciano andare durante un temporale. Il loro è un canto che dura da millenni e fino a oggi era rimasto inascoltato. Chissà adesso quante cose ci vogliono dire.

di Lamberto Rinaldi