Due film sul lavoro tra morte, vendetta, perdono, futuro
L’uomo senza colpa, di Ivan Gergolet, e After work, di Erik Gandini, sono due film con grandi diversità tra loro, a partire dal fatto che il primo è un’opera narrativo, il secondo un documentario. Il primo serra in un unica morsa drammatica la morte sul lavoro, l’istinto di vendetta, il dilemma del perdono. Il secondo le mutazioni sia in atto, sia in continua, trasformazione del lavoro negli scenari sociali e antropologici squarciati dalle nuove tecnologie.
Già il titolo, L’uomo senza colpa, richiama a una linea di confine tra condanna e assoluzione per un reato commesso. Come su una linea di confine si trova il Friuli, la zona di Trieste, in cui si svolge la storia. Un confine che racchiude in tale luogo solo il frammento di una vicenda che è invece spalancata all’Italia, al mondo intero. Chi è colpevole o innocente della morte di milioni di lavoratori che sono morti e ancora oggi crepano per l’esposizione alle fibre d’amianto?
Nell’ospedale in cui lavora come addetta alle pulizie Angela si trova faccia a faccia con un ricoverato in camera di rianimazione del tutto particolare. È Gorian, il proprietario dell’azienda in cui si sono verificate molte di queste morti. Tra esse quelle di suo marito Andrea, del marito della sua migliore amica Elena, colpita ora anche lei dello stesso male. In Italia ci sono ancora una media di circa cinquemila persone l’anno vittime dell’asbestosi e centomila in tutto il mondo. A questo bruciante tema sociale il regista Gergolet unisce una dimensione più profondamente esistenziale, ossia –tremendamente attuale. Cosa accade quando si ribaltano le posizioni e la vittima diventa più forte del proprio carnefice? Si ribaltano semplicemente i ruoli, e l’una schiaccerà ora l’altro, come la legge della forza, della potenza comanda? Perché è proprio questo che inevitabilmente è avvenuto e continua ad avvenire nella storia umana. Nella vittima del passato assurta nel presente a potenza s’impone solo l’azione di questa, la legge del più forte, non la memoria del più debole che si è letalmente patita ieri. Il vertice – o l’abisso – di questo dilemma è raggiunto grazie a due ineguagliabili prove attoriali: quelle di Valentina Carnelutti e Branko Zavrsan. Quest’ultimo, poi, recita in tutto il film senza dire una parola e in stato di quasi totale paralisi motoria, per il grave stato d’infermità del suo personaggio. Queste due interpretazione danno corpo, ossia dimensione fisica e spirituale acutamente percepibile dall’epidermide e dalla coscienza dello spettatore, dell’inconciliabile paradossalità del perdono. Esso è tale – afferma il filosofo Derrida – solo se riesce a concedere proprio ciò che non si può in nessun modo perdonare. Vincitore per la Migliore Regia Italiana del Bari International Film&Tv Festival 2023. Imperdibile.
L’accezione di After work, ossia Dopo il lavoro, invece, è quella di una dimensione epocale in cui “dopo” significa “post”. L’era del post lavoro, quella in cui agli automi, ai robot sarà affidata gran parte della fatica umana e della sua alienante e umiliante ripetitività meccanica. Quale senso, scopo dell’esistenza, però, troverà l’umanità del futuro di fronte a questa voragine che si spalanca rispetto al suo passato? Il film non ha alcuna pretesa di rispondere in maniera esauriente a questa domanda, ma ci mette davanti ad alcune vertiginose paradossalità del presente. In Corea del Sud il governo ha disposto di spegnere alle sei della sera i computer di tutte le aziende pubbliche per costringere i dipendenti a tornare a casa e dedicarsi alle relazioni familiari, amicali, invece di rimanere incollati davanti a quegli schermi fino anche a undici di sera, per tornare poi là alle sette della mattina successiva. Tutte le statistiche convergono nell’attestare incontrovertibilmente che questo sta conducendo a una spinta disgregazione della società civile coreana. Anche negli Stati Uniti d’America chi lavora è preda di una pura invenzione morale calvinista, quella che va sotto il nome di etica del lavoro. Questo conduce gran parte della popolazione lavorativa a rinunciare a un’impressionante monte giornate di ferie retribuite, nonostante la legge prescriva il loro totale e improcrastinabile godimento. Al contrario, in Kuwait, dove lo Stato deve assicurare la piena occupazione, una massa di dipendenti occupa una stanza, una scrivania, una postazione senza fare letteralmente niente nelle ore giornaliere contrattualmente previste. Il contrario di quello che avviene ancora negli Usa, soprattutto in aziende come Amazon. All’interno di un furgone per la consegna dei pacchi sono istallati – tra telecamere e altri rivelatori d’ambiente – una decina di dispositivi per un controllo asfissiante di qualsiasi gesto – persino bere un rapido da una lattina di soft drink – che abbassi la media dei tempi di consegna. Una condizione bollata senza mezzi termini nel film come schiavistica.
In Italia, ci dice il noto sociologo Luca Ricolfi, abbiamo invece il più alto numero di giovani Neet. L’acronimo sta per Not in Education, Employement or Training, ossia Niente Studio, Lavoro o Formazione. La percentuale, il 60% degli interessati, è dovuta al godimento di condizioni economiche, quali, ad esempio, la larga diffusione in Italia della casa di proprietà o altri lasciti familiari, che consentono loro di campare magari con poco, ma senza fare niente. Unica occupazione: aperitivi, discoteche, sballi.
Diverse altre problematiche e anche inquietanti situazioni sono mostrate nel film, il quale pur non volendo e non sapendo rispondere a tutto vuole porci davanti alla necessità di una profonda mutazione del paradigma culturale della nostra intera civiltà. Per questo è altrettanto imperdibile.
Riccardo Tavani