Un’Odissea ragazza

Tessere il teatro, i teatri del futuro è già un po’ – per dirla con Amleto – rimettere il tempo del mondo sui propri cardini. Per il principe danese è una maledizione che tocchi proprio a lui farlo. Per Barbara Chiesa, invece, una destinazione del suo apprendistato nella totalità teatrale: recitazione, musica, danza, regia, adattamento, formazione. Alle ragazze, ai ragazzi dei suoi corsi pone subito davanti quell’altezza del teatro che è segnata dalle sue origini arcaiche nel loro continuare a scorrere sotto la pelle della contemporaneità. Ossia che misconosciuta scorre sotto la stessa epidermide, le stesse voci e movenze di chi s’imbarca per la prima volta su quell’arca teatrale costruita da Barbara Chiesa con le assi della TNT Company – Teen Theatre.  

Così lo scorso anno fu la messinscena di un’Iliade, tratta e riadattata dal testo di Alessandro Baricco, sul palcoscenico del Teatro Marconi di Roma. Quest’anno – sempre sullo stesso palco – di Un’Odissea, tratta da una traduzione essa stessa mitologica. Quella del poeta d’avanguardia Emilio Villa, infatti, non è solo una delle traduzioni letterariamente più alte, ma quella in cui già la stessa scena intrinsecamente risuona. Emilio Villa inizia a lavorare sul testo originale omerico nel 1942, in pieno secondo conflitto bellico mondiale. Alla fine della guerra, però, torna indietro, rivede e riscrive tutto il testo. Il suo è dunque già in sé un nostos, un ritorno dalla guerra, come quello che fa compiere Omero a Ulisse. E nell’adattamento che ne ha fatto Barbara Chiesa, Odisseo si scinde in due distinti personaggi e attori: uno che racconta, l’altro che agisce le gesta narrate, rivissute dall’altro lui. Il nostos, così, appare anche come àlgos, ossia nost/algia, dolore, desiderio straziante del ritorno a Itaca. Nostalgia diffusa come densa nebbia cromatica nei veli che danzano, si agitano scossi dalle Sirene, Polifemo, Eolo, Nettuno, Scilla e Cariddi. Queste, come altre figure rese con soluzioni di costume e di movenze collettive che esprimono tutta la capacità dell’arte teatrale di apportare senso poetico-esistenziale attraverso i suoi peculiari mezzi espressivi. Polifemo che sorge tra il pubblico nella penombra della platea, su uno sgangherato carrozzino, quasi un Hamm, il personaggio beckettiano di Finale di partita, imparruccato e con occhialoni metallici da officina, che si scatena poi in una danza divinamente diabolica: accecato, ebbro del vino e dell’inganno di Nessuno. E le Sirene, rappresentate da tutti attori maschi in reggiseni e volteggiante travestimento. E poi Scilla e Cariddi che nel loro infuriato sabba di flutti neri scagliati dalla vendetta di Nettuno Poseidone. Ondeggiano come un unico corpo fatto di tante braccia, gambe, teste femminili protese ad aggraffiare, fracassare sugli opposti scogli il reo naviglio greco. Mentre Calipso appare tra le spire di un serpente verde, avvolta lei in quel sortilegio d’amore che non ha saputo invece togliere a Odisseo la febbre della nostalgia per Penelope, nonostante la malia d’eternità sospiratagli nei baci dalla Dea.

Anche i veli i versi di Atena Pallade si agitano e avvolgono l’eroe e il pubblico. La Dea vede, prevede, dice, predice, scandisce poesia e ordini, per rimettere sui cardini, sulla rotta il ritorno dell’eroe verso la vera casa, ossia la giustizia. Lo scudo che impugna Minerva riproduce non quello con cui è classicamente rappresentata, ma quello dipinto da Caravaggio. In esso vediamo Medusa nell’attimo in cui si guarda inorridita allo specchio con il sangue che gli cola giù dalla testa mozzata proprio nello stesso istante da Perseo. Un diverso scudo proposto da attrici e attori. Un qualsiasi oggetto, però, una volta adottato in scena, non può che segnarla anche del suo riflesso di senso. L’attimalità, ossia la sospensione del soggetto non in una storia, ma nell’attimo rappresentato, è una precipua cifra stilistica di Caravaggio. Ed essa è anche perenne attualità: dell’opera, del suo continuare a scorrere anche nell’ordine del mondo fuor dei cardini, e anzi a valere, a rintracciare, rimettere senso nonostante esso.

L’ordine sconvolto, la danza del caos arrecato dai Proci nella casa, che preme e corrompe le ancelle, che vuole penetrare nella mente di Telemaco, al fine di piegare quella di Penelope. Il ruolo di Telemaco è affidato a una ragazza, e questo esprime in sé il comune destino del figlio con la madre, in quanto debolezza pre-scelta, ossia eletta dal patriarcato per soccombere alla ingiustizia della sua forza, pre-potenza, biecamente proclamata come insita nella natura, ab origine. La guerra omerica, quella vissuta in opera e vita da Emilio Villa; quella che sta vivendo il mondo oggi, e che non è neanche tanto più solo a pezzi, secondo la nota definizione di Papa Bergoglio, la ricorda alla fine a Ulisse e al pubblico proprio la Penelope di questa bella Odissea ragazza: le donne non staranno più ad aspettarvi mentre vagate a scardinare il mondo, a farvi –, a farci a pezzi.

Riccardo Tavani