La violenza sommersa sulle donne non può essere normalizzata

No. Non è normale che un collega assesti una pacca sul sedere alla vicina di scrivania, che faccia in una riunione battute sul suo abbigliamento. No, non è normale che un ragazzo installi il localizzatore sul cellulare della fidanzata o che controlli le sue chat private. Non è normale che una donna di ritorno dal lavoro o da una cena venga inseguita fin dentro l’androne di casa o che l’ex l’aspetti di nascosto con la scusa di un “ultimo chiarimento”.

Non è normale, soprattutto, che tutto questo venga considerato normale.

Sono rientrate come “normali”, nel nostro modo di ragionare, frasi come:

«Che sarà mai?», «Mica sarà violenza questa», «Esagerata, è solo un complimento», «Sei tu che hai indossato una gonna troppo corta», «Però tu l’hai illuso».

Siamo arrivati all’assurdo, perché si possa parlare di violenza, che un donna debba essere necessariamente uccisa, violentata o picchiata.

Ma prima di questo c’è un terreno fertile fatto di parole, pensieri, sguardi, pregiudizi e quella cultura patriarcale o maschilista che dir si voglia, che resiste nelle pieghe della nostra cultura condivisa, nei risvolti della nostra società.

Le donne più avanti negli anni ricordano i palpeggiatori seriali sui mezzi pubblici (oggi è violenza sessuale), gli esibizionisti con l’impermeabile aperto sulle nudità fuori da scuola (idem), i pedinatori professionisti nei parchi. Le più giovani sperimentano gli stessi fantasmi e altri ancora: i controlli ossessivi sui cellulari, le manipolazioni psicologiche, il sesso estorto con la complicità dell’alcool e della droga, le trappole sentimentali tese con i mezzi tradizionali e con quelli contemporanei dei social.

In occasione del 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, si è deciso di chiedere a un campione di amiche, conoscenti, colleghe di raccontare la “propria” violenza.

Ed è stato puro stupore scoprire che nessuna di loro è stata esente, nel corso della vita, da un episodio di molestia: piccolo o grande che fosse sono esperienze che segnano, che fanno sentire le donne calpestate, annientate, violate. Alcuni (maschi) inorridiranno pensando che anche alle loro mogli, sorelle, madri e figlie è statisticamente molto probabile che sia accaduto qualcosa di simile.

Altri ancora – speriamo pochi – penseranno che in fondo c’è di peggio dell’essere palpeggiata o inseguita fino alla porta di casa.

Ed eccolo, l’errore più grave: normalizzare comportamenti che normali non sono. C’è violenza anche se non c’è reato, e nella maggior parte dei casi, comunque, di reato si tratta. C’è violenza in tutto ciò che lede la dimensione intima di una donna, che una donna subisce contro la sua volontà e che ne limita o ne condiziona la libertà. Di più: nello spazio scavato da questa violenza quotidiana – subdola, sottovalutata, spesso tenuta segreta per paura, umiliazione, vergogna – trovano radici l’odio e il male che come geyser troppo spesso esplodono nell’orrore assoluto degli abusi, delle percosse, dei femminicidi. È la “cultura dello stupro” che resiste e inquina la nostra società, minando dal profondo la partita della pari dignità tra uomo e donna.

Dal 2017 in avanti il movimento #MeToo ha avuto il merito di aver reso chiaro, in una sorta di autocoscienza collettiva globale e non senza alcuni eccessi, che le prevaricazioni, i ricatti, le prepotenze maschili sono pervasivi, frutto anche di rapporti diseguali di potere, e colpiscono una percentuale impressionante di donne. E che però si può reagire.

Parlare e guarire.

Il ruolo degli uomini è cruciale, fondamentale. Loro possono fermare i cicli di violenza nei contesti in cui abitano: in famiglia, al lavoro, per strada.

Possono dire “basta” alle dinamiche più retrive, interrogarsi sui propri comportamenti e sulle proprie emozioni, educarsi, formarsi, ascoltare.

Fino a liberarsi dei residui stantii di una vecchia cultura, sì, patriarcale e maschilista.

Solo liberati dai retaggi di antiche ed arcaiche culture, che permeano ancora in ognuno di loro, solo così gli uomini posso davvero fare la differenza ed essere realmente alleati delle donne, combattere le loro battaglie, in una sorta di intesa, unione, sodalizio empatico con quelle che possono essere le loro mogli, sorelle, madri, figlie.

Ma ancora di più, lottare per tutte le donne indistintamente.

E tante sono le violenza sommerse, nascoste, mute, senza urla, senza un grido d’aiuto.

Se solo riuscissimo tutti noi a riconoscerle nelle nostre vite e in quelle di coloro che ci passano accanto sarebbe un miracolo. Perché solo riconoscendole, chiamandole con il loro nome e convincendosi che no, non è normale che tutto questo avvenga, allora forse potremmo eliminarle prima che sfocino in quell’irreparabile che tutti conosciamo.

 Stefania Lastoria