Cine-pillole di fine inizio 2024-2025
Diamanti. Molto ben confezionato. Svolgendosi la vicenda in un atelier d’alta moda, non si deludono quanto meno le aspettative. Le sorelle Alberta e Gabriella Canova sono le proprietarie di una sartoria dove s’intessono anche abiti per cinema e teatro. Tra le sue sale hanno girato e continuano a “girare moti Premi Oscar per i costumi”. Le vicende personali, familiari delle sue sarte, modelliste e principianti s’intrecciano con quelle dell’atelier alle prese con i costumi settecenteschi di un importante film. Protagoniste assolute le donne e le tematiche femminili, comprese quelle purtroppo ancora molto attuali della violenza di genere. Per questo si arriva fino a predicare e attuare – seppur in chiave di commedia – l’eliminazione del maschio violento. Intrecci e fantasmi del passato che tornano a turbare il presente anche per Alberta e Gabriella. Citazioni musicali e indirette dal Gattopardo, circa maniacalità di Luchino Visconti su abiti e tessuti di scena. Peccato che Stefano Accorsi poco richiami un regista alla Visconti. Ferzan Ozpetek appare nel suo film non solo in un breve, classico cammeo, ma in diverse scene come il grande tessitore che discretamente srotola scena e tessuto narrativo, scandendo i tagli drammatici e imbastendo a suo istinto cuciture e ricami. Durata 135 minuti.
Conclave. Ipotetica, sorprendente ma convincente prossima elezione papale. Il thriller fanta-pontificio, ormai, è diventato un genere cinematografico a sé. La cronaca quotidiana, d’altronde, ce ne propone retroscena e trame. Come potrebbero allora la letteratura e il cinema sottrarsi alla tentazione di intessere le loro di trame e chiaroscuri? In una Roma del futuro prossimo venturo si riuniscono i Cardinali per eleggere il nuovo Pontefice. L’organizzazione di tutti gli aspetti pratici, organizzativi, teologici procedurali vengono affidati a un prelato di grande esperienza e pazienza: il Cardinale Lawrence. Alle sue spalle, però, viene ordito di tutto, ai fini dei disegni di potere individuali e di parrocchia. Ma ogni scena, ogni ulteriore giro di vite realistici contenuti drammatici e nella suspense, non sono che passaggi armonici e distonici preparatori dell’inaspettato, micidiale accordo di chiusura della grande sinfonia cielo-pedestre. Superlativa prova attoriale di Ralph Fiennes. Durata 120 minuti.
L’orchestra stonata. Suona in commedia lo sfondo serio. Non è il primo, né sarà l’ultimo film su persone che scoprono di non essere figlie dei loro genitori dichiarati. I francesi, però, se non ci fanno una commedia si sentono male. È quello che scopre un celebrato compositore e direttore d’orchestra. Non è nato dalla famiglia che dovrebbe ora donargli il midollo osseo geneticamente omogeneo di cui ha bisogno per continuare a vivere. Gli dicono che ha un fratello. Lo cerca, lo trova. Cosa fa? Suona il trombone nella scalcagnata banda aziendale. Insomma: ah la commedia francese! Durata 103 minuti.
Per il mio bene. Stessa situazione di sopra ma in chiave di dramma. Giovanna è una dinamica proprietaria di un’industria estrattiva di qualità. Trapianto di fegato o addio vita. Ma scopre di essere stata adottata alla nascita. Cerca e rintraccia la madre. Francese, misantropa, vive isolata, in una casa sperduta e non vuole avere a che fare con nessuno. Personaggio perfettamente riuscito per l’interpretazione magnetica di Marie Christine Barrault. Buona anche quella di Barbora Bobulova nel ruolo della figlia. Durata 100 minuti.
Il ragazzo dai pantaloni rosa. Fenomeno di botteghino. Storia vera di tragico bullismo. Ha incassato più del film di Paolo Sorrentino, Parthenope, ma è costato decisamente meno di questo. Il titolo si riferisce a un paio di pantaloni che diventano rosa in lavatrice. Andrea Spezzacatena, piccolo genio in erba, li indossa per andare a scuola: diventano la bandiera contro cui vomitare tutto il conformismo, l’invidia, l’odio e l’intolleranza omofobica, soprattutto da parte di chi approfitta del suo fascino per distruggerlo meglio. Sotto questo aspetto, anche se il film appare realizzato in forma tradizionale, svela un versante squisitamente politico, che va oltre il mero bullismo. Bravissimi i due ragazzi e la ragazza protagonista. Citato con una scena di repertorio un altro celebre triangolo amoroso, dal finale tragico: Jules e Jim, 1962, di François Truffaut. Durata 114 minuti.
The substance. Sotto il vestito della finzione horror lo sguardo maschile sulla bellezza femminile quale orrore reale. Una diva delle lezioni fitness televisive è ormai al limite dell’età e della relativa bellezza ormai non più commercialmente utile. S’intende: per produttori, investitori, sponsor, pubblicitari, giornalisti. Riceve anonimamente e con scarne prescrizioni una fiala da iniettarsi: la sostanza del titolo. Dall’iniezione ne scaturisce una ragazza dalla bellezza fresca e travolgente. Un vero e proprio sdoppiamento. Tra le laconiche indicazioni, una è perentoria: “Anche se sembrate due siete sempre un’unica persona”. Il produttore insieme a una ventina di investitori e sponsor, ossia tutti maschi di fronte a una sola donna: la new comer, la nuova sconvolgente arrivata. Le staccano un assegno da vertigine e decidono di lanciarla come una cometa mai vista prima su tutti i canali del multiverso mediatico. Le folli folle presto impazziscono per lei. Iniziano, però, anche i problemi con l’altra inseparabile sé stessa. E qui il genere horror spinge non su uno soltanto, ma su due, tre giri di vite, aiutato anche dalle avanzate tecnologie virtuali oggi a disposizione del cinema. Il finale è una lunga, quasi tarantiniana denuncia-esplosione di tutto l’orrore d’una deleteria visione della bellezza femminile. Demi Moore ad alto livello interpretativo, ben integrata dall’altra sé stessa Margaret Qualley. Dennis Quaid l’occhio-maschio in sembiante di produttore televisivo. Coralie Fargeat l’occhio-donna in sostanza di regista. Uno dei pochi film con abbastanza giovani in sala. Migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2024. Durata 140 minuti.
Una notte a New York. Metti una sera in taxi… no al cinema. Due soli personaggi, due eccellenze recitative: Dakota Johnson e Sean Penn. Lei anche produttrice. Tutto unicamente dentro un taxi, dall’aeroporto JFK a Manhattan. Lui il taxista nell’area di sosta, lei la passeggera appena sbarcata da Oklahoma City che sale a bordo. Dopo i primi minuti di silenzioso scorrere della vettura, lui le rivolge la parola. Non smetteranno più di parlare fino a destinazione, tanto più che un incidente stradale poco più avanti a loro ha bloccato del tutto il traffico. Lei riceve anche dei continui messaggi sullo smartphone. Lui ne sa molto sui maschi. Sulle loro permanente sete di gloria narcisistica nel mondo, in affari e amore. Perché anche lui è stato così. Lei lo ascolta con attenzione, rispondendo col tono giusto, ma a volte imbarazzata, turbata, anche se lo dà a vedere appena. Quei messaggi non smettono un attimo. Fino a quando scendono davanti casa di lei e si salutano. È successo quello che ogni maschio dovrebbe ormai avere il coraggio di confessare a ogni donna su come stanno veramente le cose. E a quelli che non ne sono ancora consapevoli il film lo chiarisce inequivocabilmente. Prima che scendessero, però, il finale è stato inaspettato anche per il tassista, e per noi spettatori, naturalmente. Ha a che fare con quei messaggi. In un film tutto di primi piani, Dakota Johnson li regge con una successione di espressioni mai uguali, ma discrete, appena accennate, e per questo sempre incantevolmente azzeccate. Regia altrettanto discreta – per lasciare spazio libero necessario ai due protagonisti – di Christy Hall. Titolo originale Daddio, derivazione da Dad, Daddy, papà, papino, figura chiave del film in almeno tre sensi. Durata 101 minuti.
Leggere Lolita a Teheran. Per chi non ha letto il libro, la sua lezione ed emozioni sullo schermo. Tratto dall’omonimo best seller mondiale del 2003 di Azar Nafisi. Ambientato nella capitale iraniana, ma girato in diverse parti a Roma dal regista israeliano Eran Riklis. 1979, Azar Nafisi, professoressa di letteratura angloamericana, rientra a Teheran, come molti altri intellettuali, dopo la caduta del regime dello Scià Reza Pahlavi, nella speranza di un nuovo libero corso nella storia del proprio Paese. Aspettative che andranno non solo immediatamente deluse, ma anche schiacciate da quella dura repressione ancora in atto nel presente. L’unica forma di resistenza possibile è il raccogliersi intimamente nel ventre intimo, protetto di in appartamento, come in quello materno, per leggere, scambiarsi insieme, anche se in poche, i valori universali della letteratura. Di qui il titolo del libro e del film. È quello che fa per anni la professoressa con le studentesse più vicine al suo insegnamento. Chissà che non sia proprio da un atto così privato, intimo, come quello che conduce al concepimento di una figlia, di un figlio, non sia scaturita molto più scoperta e tenace di Donna vita libertà. Nel ruolo della professoressa Nafisi (dal 1997 in America), Golshifteh Farahani, attrice sempre impareggiabile, anche lei esule da Teheran per le sue idee e interpretazioni. Durata 108 minuti.
Anora. Strepitosa interprete per una dark-comedy di livello. Il titolo si riferisce al nome una ventitreenne lap-dancer, spogliarellista, e – se è il caso – anche prostituta. È di origine uzbeke e il suo diminutivo è Ani. Di lei s’innamora follemente Ivan Zakharov, Vanja, il rampollo di un ricchissimo e potente oligarca russo. Il ragazzo è in vacanza studi negli Stati Uniti in attesa di essere chiamato a entrare anche lui nei lucrosi business paterni. Lui, invece, sogna di ottenere la Green Card, così da non rientrare più in Russia. Al momento occupa il tempo spendendo il più forsennatamente possibile le sconfinate riserve finanziare messegli a disposizione dall’impero familiare. È assistito, protetto e sorvegliato da Toros, faccendiere armeno messogli addosso dal padre e dalla madre. Alla non indifferente cifra di 15.000 dollari, Ani viene da lui sessualmente affittata. Se la vanno a spassare a Las Vegas, spendendo e spandendo senza limiti (neanche erotici). L’ultima notte, allo scadere dell’affitto, lui la implora di sposarlo – irresistibilmente. Niente di più facile a Las Vegas. Reciproco amore paradisiaco, altro che Cenerentola! A seguito del matrimonio: per lei l’abbandono dello strip club e del mestiere; per lui i polpastrelli già sulla tanto sospirata Green Card. Ma qui interviene la potente famiglia e il film prende la velocità vertiginosa della broad comedy, commedia ampia, spassosamente, assurdamente dark, senza però metterne in secondo piano il contenuto drammatico per la protagonista. Tutti piani intersecantisi che reggono in veridicità soprattutto in grazia della sua prodigiosa interprete: Mikey Madison. Durata 139 minuti.
Le Déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta. Non il massimo ma importante su una pagina storica poco o niente raccontata. L’ultimo periodo della famiglia francese dopo la loro destituzione a seguito della Rivoluzione Francese iniziata nel 1789. Il Re Luigi XVI, la Regina Maria Antonietta e famiglia, servitù compresa, sono condotti in un salone alle Tour du Temple, quale unico spazio concesso e adibito a loro residenza. Lì sarà tutto: soggiorno, camera da pranzo, da letto, da lettura, esercizio fisico e altro. Anche la servitù è ridotta a un unico maggiordomo. Un ufficiale e diversi soldati posti alla loro sorveglianza. Devono attendere che si istruisca il processo e si pronunci la sentenza a loro carico. Denudati della loro regalità emergono i contrastanti caratteri umani nella desolante verità del loro destino nell’ora del diluvio. Durata 101 minuti.
Napoli – New York. Buoni sentimenti per il grande pubblico anche americano. Soggetto scritto da Federico Fellini e dallo sceneggiatore Tullio Pinelli. Dopo aver visto il film, ogni cinephile non può fare ameno di domandarsi cosa ne sarebbe uscito se Fellini avesse realizzato quel progetto. Magari non lo ha mai poi portato avanti, proprio perché in relazione a tutte le altre possibilità che gli venivano incontro, sentiva che da quel soggetto non poteva scaturirne un capolavoro. Certamente, però, il suo film non sarebbe stato così carico di cliché e luoghi comuni che strizzano l’occhio al grande pubblico, anche americano. Qualche pregio, però, il film lo ha. Il principale è che, parlando degli immigrati italiani di ieri, non si può fare a meno di riferirsi – consciamente o inconsciamente – ai migranti extracomunitari di oggi. Il pubblico che lo ha palesemente apprezzato. E nel ‘pacchetto’ ben confezionato di film natalizio dalla morale edificante c’è anche questo contenuto. Durata 124 minuti.
Berlinguer – La grande ambizione. Molto convincente Elio Germano non sempre il film. La vera grande sfida personale è quella intrapresa dal regista Andrea Segre nel rappresentare oltre che quella pubblica, anche la vita privata del Segretario del Partito Comunista Italiano (PCI). Quest’ultima appare la parte più riuscita, grazie alle capacità interpretative di Elio Germano, che sa restituirci pienamente un Enrico Berlinguer autentico, pur non somigliandogli per niente somaticamente. Sul piano politico, l’incipit è un fatto maledettamente politico, ma per niente pubblico. L’incidente automobilistico subito da Berlinguer in Bulgaria nel 1973 ha l’aspetto di un vero e proprio attentato non riuscito alla sua vita. Pur tenendo sotto silenzio questo inquietante episodio, non si può dimenticare la sua dichiarazione pubblica di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello militare della Nato. E questo è legato alla grande ambizione del titolo. Quella di realizzare in Italia sì il socialismo, ma solo attraverso una strategia, una tattica, un’azione e lotta politico-culturale tese a un esito inequivocabilmente democratico. Quello che fu chiamato euro-comunismo. Cosa malvista sia Oltrecortina di Ferro in Russia, sia Oltreoceano in America. E qui è cruciale il rapporto con Aldo Moro. Rapporto sì rappresentato nel film, ma non in tutta la complessa dimensione che ha avuto. Con la scompasa dell’uno, infatti, la grande ambizione dell’altro non ha più una sponda politica concreta. La successiva scomparsa dell’altro, se anni dopo, chiude segna il declino stesso della politica, di un secolo intero, e non solo in Italia. Durata 95 minuti.
Wiked – Parte 1. Sorprendente, tra musical, fantasy e contenuti autentici. Tratto da un musical di successo a Broadway. La prima parte dura 2 ore e 40 minuti, ma tutti ben spesi. Immagini, composizioni grafiche e colori da capogiro. A cominciare dalla faccia della protagonista: verde. Nel regno di Oz muore l’odiata strega Elphaba. È il trionfo della sua eterna rivale, la buona strega del nord del Glinda. Ma una bambina candidamente le domanda se è vero che una volta siano state molto amiche. Inizia un lungo flash-back dalla nascita di Elphaba nella sua inaspettata singolarità, fino agli studi nell’esclusivo collegio per future streghe, alle doti innate, travolgenti e alle grandi imprese della ragazza, vera protagonista assoluta, alla quale Glinda non può paragonarsi neanche per mezza unghia del dito mignolo. Ma tutte le vicende, le lotte, gli intrighi, gli inganni hanno l’inconfondibile sapore di quello che avviene oggi nel nostro mondo. Da vedere possibilmente in originale e in sala con impianto audio multi stereo. Per sentirsi tremare dentro le poltrone nelle scene più roboanti. Durata 160 minuti.
Gran Tour. Imperdibile per cinephile. Il cinquantenne portoghese Miguel Gomes è un regista sì sperimentatore, sì d’avanguardia, ma a partire dall’antico del cinema e della storia. Lo aveva già mostrato nel 2015 alle platee internazionali con il lungo e funambolico Le mille e una notte, multiforme, mutante intreccio tra fiction, documentario e inedite forme cine-narrative. In questa sua nuova opera ci porta in Estremo Oriente. L’uso del bianco e nero è affiancato da tecnologie di ripresa per rendere le immagini il più vicino possibile a quelle del primo cinema. Siamo infatti in Birmania nel 1917. Edward, un funzionario dell’impero britannico, riceve un inaspettato telegramma dalla sua fidanzata Molly: “Sto arrivando a Rangoon per sposarti. Stop”. Lui si precipita alla stazione e sale sul primo treno per fuggire. Appena arrivata a lei capita di tutto, ma non le resta che inseguirlo ovunque vada a nascondersi: Vietnam, Filippine, Giappone, Cina. Senza mai demordere, pur tra mille peripezie e disavventure, neanche nell’invio dei suoi puntualissimi telegrammi che raggiungono sempre Edward al suo provvisorio indirizzo. Alle riprese d’epoca, di finzione monocromatica, si intrecciano quelle a colori di riprese effettuate dall’autore in diverse parti del mondo e dal spore più documentaristico. Un autentico Gran Tour: mirabolante, vertiginoso, spiazzante che sedimenta e semina così tanto cinema che gli autori del futuro non mancheranno di raccoglierne a piene mani. Durata 129 minuti.
Piccole cose come queste. Un eccellente Cillian Murphy in una drammatica storia vera di quotidiana nascosta ingiustizia. Un fornitore di carbone a un collegio femminile di suore, si accorge – nonostante le apparenze – che molte cose non solo non sono in regola, ma sono delle autentiche porcherie. Già le cose non gli vanno economicamente bene, ma l’ostilità crescente che si guadagna dalla madre superiora rischia di condurlo al fallimento. Un film toccante fino all’ultima immagine. Ambientazione Irlanda, Natale 1985. Regia di Tim Mielants. Durata 96 minuti.
Freud – L’ultima analisi. Antony Perkins, sempre grande in ogni sua interpretazione, da solo è tutto il film. Gli aspri dialoghi esistenziali sulla religione tra Sigmund Freud e lo scrittore C. S. Lewis, autore della serie romanzesca Le cronache da Narnia. Il padre della psicanalisi è malato di cancro ala palato, una dentiera e altri guasti lo fanno impazzire di dolore, tanto che deve imbottirsi di morfina. È prossimo alla fine, ma non perde la sua lucidità mentale, anzi l’affila come una lama di rasoio. Protagonista anche Anna Freud, nel suo complesso rapporto con il padre, cui nasconde per lungo tempo la propria omosessualità. Sullo sfondo l’avvento del nazismo e i bombardamenti aerei su Londra, dove Freud e Anna si erano trasferiti, proprio per sfuggire al regime hitleriano. Qui è anche dove, attorno al 1939, è ambientato prevalentemente il film, ma con alcuni flash back viennesi. Regia di Matt Brown. Durata 110 minuti.
Sulla terra leggeri. Originale racconto d’un amore perduto con inedite immagini d’archivio. Intreccio mnemonico e temporale dell’incontro di una ragazza e un ragazzo tra le sponde del Mediterraneo negli anni ’80. Miriam, abbagliante ma fuggente bellezza tunisina e Gian che la smarrisce, la ritrova, la riperde nel tempo e nella memoria. La regista italo-tunisina Sara Fgaier, al suo primo lungometraggio, viene dalla scuola e dal mestiere del montaggio. L’inserimento di prezioso e inedito materiale d’archivio le deriva dal tanto tempo passato nella ricerca d’immagini di repertorio e nel loro montaggio creativo. L’uso di queste immagini in un classico contesto narrativo sta diventando sempre più frequente. È una tecnica chiamata found footage, ossia l’estrazione di vecchie riprese dal loro contesto originale, per conferire loro un nuovo senso in quello attuale. Questo permette di far riemergere dagli strati più profondi del sottosuolo cinematografico immagini di grande qualità, girate da anonimi operatori, i quali, però, il loro mestiere lo conoscevano bene. In questo film di Fgaier esse ricevono sì nuovo senso, ma trasmettono anche la loro forza decisiva, conferendole una liricità particolare che esalata quella del testo letterario. Musiche di Carlo Crivelli. Durata 94 minuti.
Buona visione e buon meno peggio al mondo.
Riccardo Tavani