Callas, Parigi, il tramonto e l’ultimo suo canto di Mimì

Il film del cileno Pablo Larraín, Maria, prima ancora di essere girato, già conteneva in sé il germe della polemica. Come si può, infatti, pensare di realizzare un qualsiasi soggetto cinematografico sulla Diva delle dive, Maria Callas, senza scontentare cultori dell’opera lirica e del suo canto in particolare. Anche perché in due ore di proiezione in nessuna maniera può essere limitata la complessa vicenda artistica ed esistenziale della Callas. Occorrerebbe una serie tv di diverse puntante, e anche questa non sarebbe scevra dai rischi, se non addirittura dalle certezze di sintesi omissive, semplificatorie. Va perciò subito detto che il film di Larrain prende in considerazione un frammento del tutto particolare e limitato della Diva: quello del suo disperato, struggente tramonto parigino. Le due ore di film mettono in scena solo questo, con dei flash back di memoria ben evidenziati dal bianco e nero dell’immagine, mentre è a colori il presente di quel tramonto. Il colore giallo marrone delle foglie secche, lungo i viali dei parchi parigini che lei spesso percorre. Più che esplicito e reiterato, dunque, il richiamo al Viale del Tramonto.

Questa precisazione non basterà certo ad attenuare le più disparate critiche al film, soprattutto da parte di callassiane, callassiani, melomani e loggionisti. Il regista del film si deve rassegnare a questo. Anche perché le labbra, non ritoccate, ma completamente rifatte della pur bravissima Angelina Jolie, contrastano troppo con l’espressione fisica e spirituale della Callas, introducendo un elemento di inautenticità, fin dal primo piano iniziale fisso, in bianco e nero, sull’attrice che canta in play back una delle più celebri arie di Maria.

Ma intanto il nocciolo del racconto. Parigi tra 1976 e 1977. Maria vive sola nella sua lussuosa casa, con ampio salone e pianoforte a coda. L’adorano e le fanno compagnia due barboncini, uno bianco, l’altro nero. Oltre che a lei, anche a questi, sono accuditi due fedelissimi domestici italiani: Bruna Lupoli, interpretata da Alba Rohrwacher, e Ferruccio Mezzadri, interpretato da Pierfrancesco Favino. In verità, solo Bruna e Ferruccio appaiono essere la sua unica premurosa e anche affettuosa compagnia, seppur nelle dovute distanze mai superate. Sorvegliano l’alimentazione, la salute, la sua critica terapia farmacologica, per la tendenza di Maria ad abusare soprattutto di alcune pillole: il Mandrax.  Farmaco che per lei è un vero e proprio personaggio intimo di cui ha bisogno il suo pensiero, la sua immaginazione per tentare attenuare il declino. Nelle scene in bianco e nero appaiono soprattutto suo marito l’impresario teatrale Giovanni Meneghini; poi Aristoteles Onassis che gliela portò via, senza mai sposarla; il presidente americano John Kennedy, in un faccia a faccia breve, tagliente, in cui Maria, pur senza disporre dell’imponente apparato di spionaggio Usa,  intuisce immediatamente che Onassis ha già deciso di mollarla per la first lady Jaqueline Kennedy.

Il regista riutilizza qui un impianto narrativo che già aveva usato nel suo precedente film del 2016, Jackie, con una magistrale interpretazione di Natalie Portman, proprio su Jaqueline Kennedy poi in Onassis. È il racconto del presente e del passato espresso attraverso un’intervista. Lì concessa alla rivista Life; a un giornalista televisivo qui in Maria. Intervistatore che nasconde, però, anche una sorpresa svelata alla fine. Si può accettare o meno la limitazione, il taglio stilistico e temporale di Larraín, ossia il finale di Maria Callas alla Bohème, alla Mimì dell’adorata opera di Giacomo Puccini. Ma va tenuto bene in conto che è proprio del teatro musicale, e del melodramma italiano in particolare, il finale tragico ma struggente, quasi il più intenso dei tramonti, perché in esso meglio trapela un senso, una possibilità di riscatto che la sua dolorosa fine irraggia.

E nonostante l’insistenza della sorella Yakinti (Valeria Golino) a chiudere definitivamente la porta del passato e perdonarsi tutti gli errori di cui si incolpa, lei invece spalanca per tutti noi l’autobiografia che lei non ha saputo scrivere e che affida a un giornalista, che rappresenta idealmente il suo vero farmaco lenitivo e insieme lo stesso regista Larraín che s’innamora della sua figura e non può fare a meno di raccontarla nella sua più amara autenticità.

Riccardo Tavani