Un commissario che la mafia ha ucciso, ma non è mai riuscita a spegnere
Beppe Montana non era un eroe da film, Beppe non portava il cappotto dei giustizieri e non camminava con la pistola in mano. Beppe era un poliziotto vero, uno di quelli che arrivano in ufficio la mattina presto con la camicia stropicciata e la tazzina di caffè ancora in mano, uno di quelli che studiano i fascicoli, che incrociano nomi e che, soprattutto, ascoltano le voci. Era un uomo che conosceva la paura, ci conviveva e per questo non si faceva sopraffare da essa.
A Palermo lo chiamavano “Serpico”, e non era un soprannome scelto a caso. Montana si infilava nelle pieghe della città, nei silenzi densi delle borgate, dove la mafia non era una parola ma un’aria che si respirava, un’abitudine. Entrava in punta di piedi e osservava. Non cercava i boss col cappello e l’anello d’oro, ma le tracce, i collegamenti invisibili, i soldi che giravano e le complicità che li proteggevano. Capiva che la mafia non era solo una pistola o un omicidio, ma un sistema, una rete sottile fatta di paura e convenienza.
Era il 1985, un anno che a Palermo odorava di polvere da sparo e di funerali di Stato. Beppe Montana, commissario della squadra catturandi, stava dando fastidio. Aveva già messo le mani su nomi pesanti, soffiato sul collo di chi si credeva intoccabile e questo, in quegli anni, era una condanna scritta in anticipo.
Il 28 luglio si era preso due giorni di mare, un po’ di respiro a Porticello. Forse per dimenticare per un momento le facce dei ricercati, forse per illudersi che la normalità fosse ancora possibile. Ma la mafia non dimentica, e non perdona. Lo aspettavano, e quando lo videro scendere dal suo motoscafo, non gli diedero nemmeno il tempo di capire. Due uomini, una 357 magnum e una calibro 38, pochi colpi, il corpo che crolla sul cemento bagnato del porticciolo.
Quando la notizia arrivò in questura, molti rimasero zitti. Altri piansero senza vergogna. Beppe non era solo un collega ucciso, Beppe era un simbolo, uno che aveva scelto di non voltarsi dall’altra parte.
Dopo la sua morte, qualcuno disse che Beppe Montana sapeva di essere nel mirino e che non si era fermato lo stesso. Aveva paura, certo, e non era un’incosciente, ma aveva dignità da vendere perché credeva che la mafia si potesse battere anche con un taccuino, con l’ostinazione di chi vuole capire, e che prima o poi la verità viene a galla.
Oggi il suo nome non fa rumore, non riempie le piazze ma nei corridoi delle scuole di polizia, nelle aule dove si parla di legalità, Montana è ancora lì. È il volto serio di un uomo normale che ha fatto il suo mestiere fino in fondo, senza eroi e senza scudi.
E se si ascolta bene, nel silenzio delle carte e delle indagini lasciate a metà, sembra di sentire ancora la sua voce calma e il un passo leggero e sicuro di quell’uomo che non ha mai abbassato lo sguardo nemmeno sapendo che poteva essere ucciso.
Beppe Montana, commissario che la mafia ha eliminato, ma non la sua memoria.
Eligio Scatolini – Giuliana Sforza

