La notte di Alcamo Marina

C’è una notte che ancora non dorme, ad Alcamo Marina. Una notte che da quasi cinquant’anni rimane sospesa, come un respiro trattenuto. È la notte del 27 gennaio 1976, quando due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, furono trovati morti nella loro casermetta, la “Alkamar”. Uccisi nel sonno, senza che nessuno sentisse nulla. Due uomini in divisa, due vite spezzate nel silenzio della costa trapanese, tra il mare e la strada statale che scorre come una cicatrice.

Salvatore Falcetta era un uomo semplice, nato a Castelvetrano, un carabiniere come tanti, con la schiena dritta e la voce pacata. Di lui si diceva che non amava la ribalta, che faceva il suo lavoro con discrezione, come chi sa che la legalità è una forma di fedeltà quotidiana. Aveva moglie, figli, una casa che lo aspettava. Poi arrivò quella notte in cui la porta della caserma si spalancò come una bocca d’inferno.

Qualcuno tagliò il metallo con la fiamma ossidrica, un ruggito breve nella calma del mare. Entrarono in due, forse in tre. Nessuno li vide. In pochi minuti tutto finì. Due raffiche, due corpi a terra. I proiettili come semi di una verità che non avrebbe mai attecchito. Quando all’alba una pattuglia passò di lì, trovò la scena immobile, come se il tempo avesse deciso di fermarsi per guardare.

Da allora, di quella strage si è parlato molto e capito poco. Si cercarono colpevoli, si costruirono processi, si incarcerarono uomini. Alcuni di loro, anni dopo, furono riconosciuti innocenti. Le loro confessioni, dissero i giudici, erano state estorte con la forza, con la paura. Un errore giudiziario lungo decenni, una ferita che sanguina ancora nella memoria di chi sa che la giustizia, a volte, arriva troppo tardi o non arriva affatto.

E intanto Falcetta e Apuzzo restavano lì, due nomi scolpiti nel marmo, due ombre che ogni anno tornano a farsi sentire. La loro storia è rimasta intrappolata tra le pieghe della storia italiana, come una fotografia sbiadita trovata in un cassetto che nessuno ha più il coraggio di aprire.

C’è chi dice che dietro quella notte ci fosse la mafia, chi parla di servizi segreti, di trame oscure, di segreti di Stato. Forse tutte queste cose insieme. Perché in quegli anni in Sicilia tutto si confondeva, tutto aveva un doppio fondo. La verità era come la sabbia sotto i piedi: appena la stringi, scivola via.

Oggi, ogni gennaio, i carabinieri si radunano davanti a quella vecchia caserma. Le uniformi nuove, i volti giovani, le corone d’alloro. Il vento del mare che soffia tra le bandiere. Si recitano nomi, si fa silenzio, si guarda il cielo. E in quel silenzio, forse, si sente ancora il rumore della fiamma ossidrica, l’odore acre del ferro bruciato, la voce di Salvatore che chiede soltanto una cosa: che qualcuno, un giorno, dica finalmente come sono andate davvero le cose.

Perché in fondo la verità non muore. Resta lì, sotto la sabbia, come una bottiglia con un messaggio dentro. Aspetta solo che qualcuno la trovi e la legga.

Eligio Scatolini – Giuliana Sforza

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