Pietro Scaglione, primo magistrato ucciso dalla mafia

Simone Cerulli

In un giovedì di maggio del 1971, il primo dei magistrati cade sotto i proiettili della mafia. Quello di Pietro Scaglione, Procuratore generale della Repubblica, a Palermo, è un omicidio senza precedenti. Mai la malavita siciliana aveva osato tanto, seppure l’escalation di violenze in quegli ultimi mesi a Palermo erano stati significativi: viale Lazio nel 1969, l’uccisione a colpì di lupara del manovratore delle Ferrovie Nicolò Di Maio il 21 aprile del ’70, così come la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro nel settembre dello stesso anno.
E proprio Scaglione, nella sua lunga carriera di giudice e di pubblico ministero, si era occupato dei principali fatti di violenza siciliani di quei tempi, degli assassini dei sindacalisti Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale, della strage di Portella della Ginestra.
Al tempo sostituto procuratore generale, chiese di fatti l’ergastolo per i boss imputati nel processo per l’omicidio del sindacalista Rizzotto e il rinvio a giudizio per i sospettati dell’omicidio del sindacalista Carnevale. Celebri le sue dure requisitorie, dove parlò di “febbre della terra” ed esaltò le lotte sindacali, mentre nelle conclusioni degli atti relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra, aveva parlato ad esempio della “lotta ad oltranza contro il comunismo che Salvatore Giuliano mostrò sempre di odiare e di osteggiare; la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come i debellatori del comunismo, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato; la difesa del latifondo e dei latifondisti”.
Ma Pietro Scaglione fu anche uno dei primi, in un tempo in cui la mafia era ancora considerata da molti invenzione dei detrattori del Sud, a capire che la mafia non era fatta solo di onore e lupara, ma che si nutriva ormai da tempo del potere istituzionale. Scrisse all’epoca il giornalista Mario Francese, ucciso poi nel 1979, che il procuratore Scaglione: «fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli  nelle pubbliche amministrazioni. E’ il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra l’alto magistrato e i politici, il tempo in cui la linea Scaglione portò ad una serie di procedimenti per peculato o per interesse privato in atti di ufficio nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici».
Una figura di certo scomoda, le cui cause di morte dovrebbero dunque essere piuttosto comprensibili. Eppure, nulla dicerto si sa ancora oggi, considerato che le indagini non hanno mai condotto né ai sicari né tantomeno ai mandanti.
Quella mattina del 5 maggio, come aveva fatto per tutte le mattine dei sei anni precedenti, Scaglione, ormai 63enne, era andato al cimitero a portare dei fiori sulla tomba della defunta moglie. Ad accompagnarlo, l’agente Antonio Lo Russo, alla guida dell’auto di servizio. Al ritorno, imboccata via dei Cipressi, un’altra vettura affianca quella del magistrato, costringendo Lo Russo ad accostare per non schiantarsi contro il muro, all’altezza di un convento di Cappuccini. A quel punto, i sicari entrano in azione. Probabilmente erano in tre, come ricostruito poi dagli inquirenti in base ai bossoli ritrovati. Devono aver sparato per un bel po’, con mitra e pistole, lasciando i due senza vita. Erano le undici di mattina, il quartiere in questione popoloso, dove la gente è solita brulicare per le strade, eppure nessuno ha visto nulla. Niente testimoni. Il giudice istruttore Bonetto, che affiancava il dott. Grisolia nell’indagine, dichiarò mesi dopo a un giornalista de L’Unità: «Ho interrogato molti testimoni. Sono persuaso che almeno duecento degli interrogati conoscano perfettamente chi ha sparato, ma nessuno finora ha il coraggio di parlare».
Viene da sé che ogni altra pista, fuori da quella mafiosa, fosse e sia da escludere. Ma è sul movente che i contorni, fin dal giorno successivo all’assassinio, diventano meno chiari.
Esattamente all’indomani dell’attentato, il procuratore Scaglione sarebbe dovuto partire per Lecce, dove era stato trasferito per decisione del Consiglio superiore della Magistratura. In teoria in virtù di una promozione, in pratica come ammenda per la vicenda della fuga del boss Luciano Liggio dalla clinica di Roma in cui era stato ricoverato per un’infezione ai reni. Per lui era stata firmata una custodia cautelare, eseguibile però solo nella zona di Corleone. A firmarla, lo stesso Scaglione. Il successivo rapporto dell’Antimafia consegnato al Csm indicava nei funzionari di polizia di Palermo i principali responsabili, tra i quali appunto Scaglione, che fu poi assolto nelle indagini successive, ma di fatto trasferito in Puglia. E su questo si scatenarono le polemiche successive alla sua morte: il senatore Li Causi, ad esempio, affermò che “Pietro Scaglione era uno di quegli altissimi personaggi, insospettabili, conniventi con la mafia, e quindi essi stessi mafiosi. Così come molti altri.
Da ciò che è poi emerso negli anni, tra cui le testimonianze di vari testimoni di giustizia, sembra più sensato pensare che, per dirla con Borsellino: «La mafia condusse una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione».
Rimarrebbe solo il dubbio sul perché la mafia si sia scomodata proprio un momento prima che il magistrato si togliesse dai piedi, ma a tal proposito un’altra testimonianza potrebbe essere illuminante, ovvero quella del pentito Calderone che collegò la morte di Scaglione alla volontà di creare un clima di tensione, in seguito al fallimento del cosiddetto Golpe Borghese.
Dubbi e ombre che nel tempo sono stati dipanati, ma che all’epoca hanno giocato ad alimentare il fango e a rallentare la presa di coscienza dell’opinione pubblica sul fatto che esistesse, e cosa fosse, la mafia. Si è dovuti arrivare al tritolo dei primi anni ’90, perché si potesse commemorare in pace e nel giusto modo, uomini come Pietro Scaglione.

di Simone Cerulli

Print Friendly, PDF & Email