Scuola: cronache di una precaria qualunque

Roma, Rieti, Viterbo, Latina, Frosinone, Milano, Cremona, Mantova, Bergamo, Torino, Trieste, Trento, Bolzano, Bologna, Modena, Parma, Firenze, Pisa, Siena, Arezzo, Lucca, L’Aquila, Napoli, Ragusa. E ancora un numero imprecisato di città, di cui nemmeno ricordo il nome, sparse tra Svizzera, Spagna, Francia, Germania, Albania, Romania, Bulgaria.

Mi chiamo Martina, ho 29 anni e due lauree; sono una dei tanti precari del mondo della scuola in attesa di una risposta che ogni anno si trovano catapultati nella corsa alla messa a disposizione e ho inviato la mia candidatura come supplente in ogni singola scuola secondaria di tutte le città che ho elencato poco fa. Ho provate anche a tenere il conto di quante istanze di messa a disposizione ho inviato, ma ho smesso di farlo quando hanno superato le decine di migliaia. Lo scorso anno è andata più o meno nello stesso modo. Le scuole che avevo contattato erano un po’ di meno, forse un migliaio; i colloqui sostenuti ammontavano ad uno, presso un istituto paritario della Capitale che alla fine cestinò la mia candidatura per assenza di esperienza.

Se vi state chiedendo se il mio è un caso sfortunato vi rispondo subito: no, la mia non è l’eccezione è la regola. E se in questi giorni avete ascoltate i telegiornali ripetervi più o meno quotidianamente che quest’anno in Italia ci sono centinaia di cattedre vuote e vi siete convinti che questa rappresenti una grande occasione per quelli come me, beh, sappiate che le cose non stanno esattamente così e non stanno così perché nel nostro Paese la scuola si trova in uno stato di sfacelo e di disordine che va ben oltre quello che la narrazione politica vuole farci credere. E la cosa più scoraggiante è che nessuno, né a destra, né a sinistra, né nel campo di quelli che ci raccontano che destra e sinistra non esistono più sembra preoccuparsene concretamente e, soprattutto, proficuamente.

Nemmeno l’idea storica che vede l’istruzione come un tema tipicamente di sinistra sembra trovare più riscontro nella realtà; non credo sia necessario soffermarsi ancora su quella “Buona scuola” che a Renzi e al Pd (quando ancora la scissione appariva una cosa più o meno lontana) ha fatto perdere la fiducia di un’ampia fetta del mondo scolastico.

Le cattedre sono vuote e tante scuole a settembre si ritrovano nel caos, è vero. Mancano gli insegnanti, è vero anche questo, ma chi non conosce da vicino questa realtà probabilmente non sa che il sistema per arruolare insegnanti in Italia si basa su un meccanismo cervellotico e al contempo del tutto irrazionale.

Iniziamo col dire che esiste una discrepanza priva di una ragione fondata tra l’iter previsto per l’accesso all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e della primaria e quello previsto per l’insegnamento nella scuola secondaria. 

Se nel primo caso per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, e quindi potersi quantomeno iscrivere nella seconda fascia delle graduatorie, è richiesta una laurea in Scienze della formazione e un tirocinio (incluso nel percorso formativo), ben diversa è la situazione per gli aspiranti professori. Innanzitutto va detto che, inspiegabilmente, all’interno dei corsi di laurea riconosciuti dal Ministero della Pubblica Istruzione come titoli di accesso alle relative classi di concorso non è previsto alcun tirocinio finalizzato all’insegnamento. 

Fino all’Aprile del 2013, quando è stato emanato il decreto che porta la firma dell’allora ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, il tirocinio (requisito necessario per ottenere l’abilitazione all’insegnamento) veniva effettuato durante l’anno di TFA. In buona sostanza gli aspiranti professori, già in possesso di una laurea triennale e di una laurea magistrale, si vedevano costretti a sborsare mediamente 2.500 euro (il costo variava in base alle università) per seguire dei corsi di didattica generale e portare a termine un tirocinio di poco meno di 500 ore, a conclusione del quale avrebbero dovuto sostenere un esame che, nell’eventualità di superamento, avrebbe finalmente concesso la tanto sospirata abilitazione e dunque la possibilità di iscriversi alle graduatorie al momento della loro riapertura. 

Ora la domanda sorge quasi spontanea: perché i corsi di didattica e il tirocinio non vengono inseriti all’interno di quei corsi di laurea che il Ministero riconosce come titoli di accesso, così come accade anche per gli aspiranti insegnanti di infanzia e primaria?

Ma andiamo avanti perché con l’approvazione del decreto Fedeli le cose, se possibile, si complicano ulteriormente.

 Il vecchio TFA viene infatti smantellato per lasciare posto al FIT. Il nuovo sistema di reclutamento degli insegnanti prevede un concorso a cui si accede solo dopo aver conseguito ulteriori 24 crediti formativi in discipline antropologiche, psicopedagogiche o relative alle metodologie didattiche. Di istituire questi corsi se ne sono occupate in primis le università, ma anche questi, eccettuate alcune categorie di studenti, hanno ovviamente un costo perché, se è vero che il TFA non esiste più, è pur vero che un’entrata sostitutiva bisogna garantirsela. Comunque, acquisiti gli ormai tanto famigerati 24 crediti si è finalmente in regola per partecipare al concorso. Se tutto va bene e l’ormai canuto candidato riesce a superarlo, allora potrà accedere all’anno (inizialmente ne erano previsti 3, poi l’ormai ex ministro Bussetti ha apportato delle modifiche) di tirocinio a scuola, al termine del quale, se verrà superato l’ennesimo esame finale, otterrà l’immissione in ruolo.

Di questo concorso si parla più o meno da due anni; Bussetti aveva annunciato il bando straordinario per i precari con almeno 36 mesi di servizio entro Luglio, quello per i laureati in possesso dei crediti entro la fine del 2019. Siamo alla fine di Settembre, la lunga estate della politica italiana è trascorsa come tutti sappiamo e dei concorsi neanche l’ombra. Il nuovo ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha annunciato appena pochi giorni fa che la pubblicazione del bando riservato ai precari che hanno alle spalle almeno 3 anni di servizio è prevista entro Novembre.

Chissà che non sia la volta buona che il tanto discusso concorso smetta di essere leggenda e diventi realtà; chissà quando sarà la volta di noi che ci siamo laureati a decreto Fedeli in vigore, che abbiamo maturato i nuovi crediti richiesti dalla normativa e aspettiamo questo concorso se non per il miraggio di entrare di ruolo, quantomeno per la speranza di superare le prove e, come previsto, ottenere quell’abilitazione che ci consentirebbe almeno di iscriverci nella seconda fascia delle graduatorie.

Già, perché quelli come me, quelli a cui non viene data nemmeno la possibilità di abilitarsi per poter essere inseriti in seconda fascia, che nemmeno in terza fascia – quella per i non abilitati-  possono iscriversi perché è stata chiusa nell’anno scolastico 2016/2017 in previsione della messa a regime del nuovo sistema di reclutamento dei docenti, quelli come me sono i precari dei precari.

Così eccoci tutti ad inviare centinaia, migliaia di istanze di messa a disposizione  (di MAD per gli addetti ai lavori), l’extrema ratio per continuare a sperare di essere presi in considerazione da quelle scuole che continuano ad avere le cattedre vuote. Quale sia esattamente il sistema che regolamenta la selezione tramite MAD non lo sappiamo; noi  continuiamo ad inviarle e intanto continuiamo a chiederci: ma se per mettere in moto la macchina del reclutamento con il nuovo sistema ci vuole così tanto perché nel frattempo non è stata riaperta almeno la terza fascia? Ma soprattutto: perché non semplificare il sistema inserendo il tirocinio nel percorso universitario dei futuri professori e rendendo abilitante la laurea magistrale?

Gli insegnanti, e gli aspiranti tali, sono in attesa di risposte. La scuola è in attesa di risposte concrete a innumerevoli questioni ignorate o affrontate inadeguatamente per decenni. Quando sarà il momento giusto?

di Martina Annibaldi

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