Nicolae – capitolo tre

Nicolae mi sorprende subito. Sembra si muova a suo agio in quello spazio ristretto della cabina del treno. Forse è abituato al suo spazio vitale che deve essere più o meno simile, ma più freddo o più caldo a seconda delle stagioni. Ha in mano un pesciolino di stoffa un po’ sporco a dir la verità, me lo mostra fiero e mi dice con quel suo dialetto strano “si chiama come te”. Anche se io non gli ho ancora detto come mi chiamo. Mi prende un nodo in gola e faccio fischiare il treno, così lo vedo sorridere e mi passa la malinconia.

Dentro quel visetto tondo ha due occhi che non perdonano, color nocciola che si addicono a quel suo colorito roseo tipico delle popolazioni dell’Est, ma i suoi capelli neri tradiscono altre provenienze. Le sue piccole mani mostrano ogni tanto qualche graffio e istantaneamente gli guardo le ginocchia che io da piccolo avevo sempre sbucciate e vedo che ha le gambe un po’ storte e in fuori. E’ sicuro che abbia sofferto la fame.

Vuole sapere tutto del treno e non smette di guardare i pulsanti e le leve, i manometri e le luci di segnalazione. Gli piace il fischio. La leva del fischio. Lo guardo, comprende che può spingere quell’innocua levetta. Il treno fischia, fischia e ancora fischia.

Ha le scarpe aperte sul davanti. Un vecchio paio di scarpe da ginnastica sporche e consunte, calzini calati di due colori diversi. La felpa rossa è quasi pulita. Forse è un dono della settimana scorsa.

Nicolae è sporco, ma non è colpa sua. Gli negano l’acqua. C’era una fontanella pubblica nella stazione, è stata chiusa per impedire ai rom di attingere l’acqua.

Negare l’acqua è una colpa. Negare l’acqua, è negare il diritto a vivere. E le città in metamorfosi negano, ma ancora di più negano le genti in metamorfosi che non tollerano e non riconoscono il diritto all’esistenza e alla diversità. Che non accolgono.

Nicolae è figlio di questa negazione. Paga perché diverso. Paga per le nostre paure, per i nostri egoismi. Paga per la sua innocenza e non capisce perché gli hanno sporcato le dita dei polpastrelli di inchiostro. Non capisce perché gli hanno impresso le dita su un foglio di carta con su scritto ministero dell’interno. Un giorno qualcuno gli parlerà delle leggi razziali.

Sembra condannato a vivere sporco questa vita, ma forse si riscatterà, chissà. Forse tra vent’anni sarà quasi normale e “italiano” a tutti gli effetti. Anche se l’inchiostro non andrà più via dalle sue dita. Anche la sua mamma è morta senza cure sotto un ponte.

“Signore… ” mi chiama signore. Sono venticinque anni che lavoro in ferrovia, mi hanno chiamato in tutti i modi ma mai nessuno mi aveva chiamato signore. Mi piace. Penso alla rivoluzione francese, a quando il popolo divenne cittadino. Iniziarono dopo l’assalto alla Bastiglia a chiamarsi tutti, tra di loro, cittadini. Avevano conquistato il diritto ad esistere.

Nicolae mi chiama signore. E’ un bel chiamare.

Ho deciso di chiamare Emile, suo padre, signore. Merita che riconosca il suo diritto ad esistere. Lo chiamerò signore davanti a suo figlio. E’ giusto così. E’ giusto per Nicolae.

 

di Claudio Caldarelli