Kripton, la lingua di fuga dal dolore d’anima

A fine, per ora, della pandemia da Covid, il disagio psichico tra i giovani risulta aumentato del 30%. In aumento – altrettanto vertiginoso – i tagli effettuati dalle istituzioni nel settore della sanità pubblica, in particolare in quello della salute mentale. Il regista Francesco Munzi, dai suoi eccellenti esordi nel cinema di narrazione (come Anime nere, del 2014), sembra essersi ormai stabilmente collocato in quello detto del reale, ossia nel genere documentario. Il quale, non ci stanchiamo mai di ricordarlo, è l’origine stessa del cinema, il cui cammino futuro, perciò, non potrà mai fare a meno di attingere allo scorrere vivo di tale inizio sotto la pelle del presente.
 
Munzi mette sullo schermo una preziosa sintesi dei tre mesi e mezzo che ha passato con sei tra ragazze e ragazzi, segnati da questo tipo di dolore d’anima con fine pena mai. Il regista è con loro a casa, nelle strade, nel dipartimento sanitario della periferia romana che li ha in cura, negli incontri con medici e tra medici e famiglie.  Kripton, il titolo del film, è il costante riferimento-racconto che fa uno di questi ragazzi al pianeta natale di Superman, da dove proverrebbe anche lui. E proprio l’elemento del racconto e della lingua usata per narrare che ci colpisce in ognuno di questi sei casi. Una proprietà, una ricchezza e persino una poeticità di linguaggio che difficilmente troviamo in loro coetanei che definiamo normali. Lo stupore è suscitato da una contraddizione insormontabile. Se la lingua, il discorso, il logos, è la sede della ragione, tanto che infanzia, significa assenza di favella, di parola, ossia di facoltà razionale, come è possibile che questə ragazzə, che padroneggiano così sorprendentemente il linguaggio, lo conducano verso atmosfere planetarie di delirio, disperazione kriptoniana, seppure venata di poetica inventiva e invettiva esistenziale. E la padroneggiano anche quando si tratta di una ragazza dell’Est che con vivezza abissale ci parla dell’ombra, dell’oscurità che domina la nostra esistenza, che l’avvolge drammaticamente, ma allo stesso tempo la riscatta con la sua purezza. Una purezza nel e del dolore. Lei, infatti, soffre anche della privazione più ancestrale per una donna: quella di essersi vista portare via la figlia dai servizi sociali.
 
Un altro ragazzo afferma di essere travolto da “pensieri troppo veloci”, cui lui non riesce a stare dietro. Ma siccome noi pensiamo – anche nei soliloqui con noi stessi – attraverso le parole della madrelingua che ci ha allattato e cresciuto, ecco che ancora una volta è nel linguaggio non la casa dell’essere, come direbbe un filosofo, ma quella del dolore. Dolore acuto, lacerante, perché la sua acme coincide con quella della ipersensibilità, che fa sentire, vedere, percepire a queste persone, cose che sfuggono ai normali, ossia che stanno nella norma. La norma, però, non è qualcosa di naturale, di originariamente dato. No, è qualcosa di disposto, di stabilito socialmente, legislativamente. Iper percezione della follia insita nella norma, insita nella normalità della volontà di potenza, prepotenza sull’essere. Dell’uso della massima precisione razionale nell’esercizio della violenza, nella scienza fisico-matematica della fabbricazione di armi sofisticatamente sempre più tecno-digitali e delle conseguenti strategie di terrore militare. Anche nel linguaggio c’è disposizione sintattica, grammaticale della norma. Eppure, nella lingua la norma è in continua auto mutazione, adattamento, disvelamento di inedite dimensioni della coscienza, neo-normazione.
 
Proprietà, ricchezza, poeticità delle parole, del discorso manifestate da queste persone doloranti, è indice di una conoscenza sensibilmente acuta della norma sociale, mentale e proprio per questo un tentativo di fuga da essa. Fuga che è lenimento della sofferenza, rifugio da essa e insieme ricerca della possibilità, magari solo linguistico-immaginaria, di abitare una radura diversa dell’esistenza.
 
Riccardo Tavani
 

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