Femminicidi. Se è vero che le leggi ci sono, si lavori sulla prevenzione

I casi di femminicidio sembrano non avere più una fine, la cronaca non parla di altro tanto che ormai non ci si fa più attenzione. Notizie apprese con dolore e sgomento rischiano di diventare la “normalità”, quella che non ci colpisce neanche più, quella che ci scivola via, che non ci appartiene o forse per lo stesso meccanismo di difesa, certe informazioni ce le facciamo scorrere accanto perché ci riguardano fin troppo da vicino, ci toccano nel profondo, fanno parte del nostro mondo, del nostro nucleo familiare.

E allora si può assistere ad una sorta di rimozione, negazione, allontanamento o come spesso viene chiamato in psicologia, spostamento.

Le dinamiche della mente sono numerose e certamente di difficile interpretazione non conoscendo il vissuto emotivo di chi è vittima del sistema.

Il punto è che quello che si può definire castigo, punizione fa parte del “dopo” mentre occorre indiscutibilmente difendere la vita “prima” e questo solo potenziando tutti gli strumenti che si hanno a disposizione.

Le leggi a frenare questi crimini ci sono e non da ieri.

È del 2011 la Convenzione di Istanbul «sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica», firmata dai Paesi membri del Consiglio d’Europa. In Italia speciali misure penali sono state inserite dalla legge 119 del 2013, sui “maltrattamenti”, lo stalking e gli atti persecutori, le violenze; e poi la legge sul “codice rosso” del 2019, e poi la legge 168 del 2023; fino al disegno di legge n. 1433, approvato dal Senato nel luglio scorso e trasmesso alla Camera, per punire il femminicidio con l’ergastolo.

Eppure i delitti non cessano, i castighi non dissuadono, le denunce sembrano non produrre effetti di rilievo, i processi non frenano le morti violente di genere.

Parliamo di numeri che si aggirano attorno ad un centinaio di vittime all’anno, in prevalenza per mano assassina del partner o dell’ex marito o compagno.

Sul piano giuridico e sociale c’è ancora da mettere a punto la prevenzione.

Ciò significa potenziare gli strumenti di protezione e di soccorso, le reti di aiuto, i centri anti-violenza, le case rifugio.

E anche i dispositivi di cautela, i braccialetti elettronici e l’intervento delle forze dell’ordine in tempo reale.

Ma neanche questo, pur essendo necessario, sembra essere decisivo.

Perché il punto è che ormai è diventato indispensabile impedire alla malerba di crescere nel prato e sono le radici che vanno estirpate dal fondo.

Un problema culturale in quanto le radici della violenza sulla donna “in quanto donna”, fanno i conti con l’idea assassina che è la “mia” donna, gioca forte il ruolo del “possesso”, di appartenenza come se stessimo parlando di un oggetto di cui l’uomo non può essere derubato.

E se la donna si sottrae al suo possesso allora scatta l’idea “malata” che se davvero riesce a fuggire allora non deve esserci più, né per lui né per altri. Questo il probabile impasto del delirio omicida, esplorato sotto il profilo psicologico.

Circa le spinte criminose che nascono dalla fine di una relazione, in soggetti che vendicano l’umiliazione del rifiuto, studi recenti ravvisano una dipendenza affettiva patologica, incapace di tollerare la frustrazione derivante dall’abbandono, vissuto come un affronto distruttivo. Quando le cronache rivelano crudeltà inaudite, viene da pensare che l’aggressore neghi alla vittima la sua stessa identità, la disumanizza.

La prevenzione di queste tragedie non può limitarsi ai dintorni delle relazioni affettive intossicate, che scambiano per amore il “possesso”. Deve cominciare prima, molto per tempo, fin dall’infanzia, fin da quell’apprendimento spontaneo che nel cuore dei figli registra la comunione di vita dei genitori, nel rispetto reciproco e nel dono di sé, oppure soffre il guasto della disunione e del disamore.

Poi nella scuola, fin da subito, una positiva educazione al rispetto reciproco, ponendo a base d’ogni relazione il concetto della eguale dignità personale. Poiché ogni “altro” non è un “non-io” ma un altro “io”; ed è per sé quel che io sono per me. E che il desiderio d’amore è cammino da percorrere per fare di sé stessi un dono. Frattanto, anche alla società intera va chiesto un cambiamento culturale profondo. L’eguaglianza proclamata nelle leggi va tradotta nella vita concreta.

Non è così certo che si tratti solo di una questione di patriarcato: oggi il “padre di famiglia” sembra ai sociologi una figura così sbiadita, evanescente, al punto che parlano di “eclissi del padre”. La rivoluzione culturale è più radicale, tocca tutti, uomini e donne, e riguarda una scelta di vita che in un celebre saggio Erich Fromm chiamò L’arte di amare.

Si potrebbe esortare tutti a rileggerlo o, forse sarebbe più corretto dire a leggerlo per la prima volta ma difficilmente questo può aiutare le persone ad un cambiamento che può avvenire solo da quando si è ancora piccoli per apprendere nel nucleo familiare il calore della famiglia, il rispetto per gli altri e l’amore per se stessi e per chi si ama.

Chi ha avuto la fortuna di muovere i primi passi con genitori ricchi di questi valori, oggi sarà certamente una persona che ha insiti quei valori fondamentali. Valori oggi così troppo bistrattati.

di Stefania Lastoria

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