La guerra del senso

CerulliCredo non ci sia speranza che un giorno, a breve, si smetta di avere paura. Ho fatto appena in tempo ad assaggiare la libertà e la tranquillità di movimento e spostamento nel mondo che questa modernità del finto spazio contratto e a portata di mano ha permesso, seppur con qualche pausa, da più meno mezzo secolo ad oggi, ed eccole sparite. Stavolta non sembra ci si possa aspettare una pausa corta. E lo dico, forse senza strumenti appropriati per carità, sulla base di più elementi. Il nostro sistema economico è al collasso, e con sistema economico intendo quello capitalista neoliberista. E con collasso intendo la naturale ciclicità che porta un sistema dall’apice al disgregamento, attraverso uno stravolgimento e una rivoluzione che cambierà totalmente i connotati al nuovo sistema egemone subentrante. Il colpo di coda del morente sistema è stato in passato, e credo sarà ancora, il ricorso al conflitto armato su scala planetaria, unica boccata di ossigeno di un meccanismo che si alimenta sulla disparità e sull’eterno consumo, e che deve trovare ora il modo di rialimentare entrambi scaricando all’esterno le tensioni e i limiti interni.

Non credo sia una breve pausa, ancora, perché vedo in atto un sistema nuovo, forse appena giunto a maturazione, legato però attraverso il sistema dei corsi e ricorsi storici, ad altri simili e più antichi. Parlo di quello che Huntington ha definito “scontro di civiltà” tra un vecchio sistema giunto a esaurimento e uno nuovo che preme ai bordi, fresco di animi e brulicante di ribalta, unico depositario di nuovi valori che vadano a sostituire il vuoto esausto di quelli vecchi. Con tutte le distinzioni del caso, passando dalla globalizzazione al livellamento dei costumi alla scarsa necessità spaziale migratoria. Di fatti, la novità del sistema sta nel fatto che l’alterità non è più rintracciabile all’esterno di una linea di demarcazione che, seppure arbitraria, è stata in passato più o meno fisicamente identificabile. L’alterità, sull’onda di una serie di processi inestricabili che partono dall’illuminismo, passando per la volontà di secolarizzazione al colonialismo alla psicanalisi alla rivoluzione industriale al capitalismo, è dentro quello spazio del noi, affianco a noi. Come ha spiegato recentemente l’antropologo Piero Vereni sul suo Blog, è la tremenda mancanza di senso, il fossato che la nostra società complessa e stratificata ha frapposto tra sé e la dimensione ancestrale, che scatena la frustrazione dell’insensatezza, della mancanza di un punto di riferimento di un geertziano “modello per” che guidi l’esistenza. Il  nemico è inidentificabile perché non concreto, non antropomorfo. Ci siamo illusi che la strada tracciata fosse il costante allontanarsi da una società primitiva ricca di idoli e feticci, con la convinzione che il tempo fosse una linea retta che, inevitabilmente, ci avrebbe portati dritti verso il mondo reale, razionale e illuminato. Abbiamo svelato ogni come, tralasciando il grande e unico perché. Abbiamo svuotato il senso, staccato quel grande castone che ogni civiltà tiene in alto sopra di sé, a guida, che si chiami Dio o altro, per apporvene uno identico, che si chiama scienza, economia, raziocinio, fingendo che fosse qualcosa di diverso, ma idolatrandolo ciecamente allo stesso modo. Ma questa assenza di perché che questo si porta dietro, ha creato frustrazione e reazione. Il secolarismo ha fallito, e ha lasciato da noi più che altrove un senso di smarrimento che da un paio di secoli cerchiamo di riempire con la storia dell’homo homini lupus, dell’homo oeconomicus, degli idoli del profitto che annullano la dimensione umana e non spiegano cosa ci stiamo a fare, qui su questa terra. Lasciando che il nostro ethos, la nostra interfaccia di comportamento tra morale e mondo materiale, si configuri con gli strumenti della predazione e della prevaricazione.

Quelli di noi che di questo sistema-modello sono impregnati, non ne conoscono per lo più alternativa. Ma quelli che possiedono l’appiglio a una dimensione differente, citando ancora Vereni, conoscono «un surplus di consapevolezza della distanza tra Cultura e Natura, con la vertigine che ne deriva. Il Nulla della cultura occidentale dentro cui sono cresciuti rimbomba nella carcassa mitologica della cultura da cui provengono, ed è lo scarto tra il Vuoto presente e forse il mito di un Passato ancestrale ancora gravido di senso che non riescono a gestire».

E ancora, quel mito delle origini, delle radici, della terra che Pavese ci ha ben descritto, che magari conoscono solo come narrato e immaginato, ma che acquista un valore incommensurabile nel momento in cui c’è un bisogno disperato di aggrapparsi a qualcosa. Quei vari neo-jihadisti che, fino a un mese prima di compiere una strage, conoscevano a malapena il Corano e non avevano quasi visto una moschea, navigavano nello stesso senso di vanità del tutto che permea la mia generazione. E aggrappandosi al recupero di una dimensione di valori che spesso vedono abbandonata dai loro stessi genitori, forse anche nonni, prime e seconde generazioni di immigrati che hanno cercato in fretta l’integrazione, recuperano il senso verso un mondo che non ne offre altri.

Non credo smetteremo presto di aver paura, almeno fino a quando non avremo trovato il modo di combattere questo mostro con una dimensione nuova di senso. Non serviranno a nulla i muri, le chiusure verso l’esterno, le nuove guerre sante. È una partita che non potremo vincere così, perché si gioca sul piano dell’esistenza. Una battaglia che dobbiamo rivolgere verso noi stessi.

di Simone Cerulli

Print Friendly, PDF & Email