La tartaruga rossa. Lungometraggio di animazione di Michael Dudok de Wit

Michael Dudok de Wit, l’autore olandese di questo film, ha vinto nel 2000 l’Oscar per il miglior cortometraggio con “Father and Daugther”. “La tartaruga rossa” è il suo primo lungometraggio di animazione nel genere del Graphic Novel, o meglio del Graphic Movie. Un racconto di profonda rarefazione artistica e narrativa. Un segno grafico spoglio, essenziale nella sua elegante sobrietà cromatica e un racconto senza parole ma di soli suoni, rumori delle onde, del vento, grida di volatili nel cielo. Un uomo si ritrova gettato da un naufragio in un’isola tropicale sperduta, disabitata, fuori di ogni rotta marittima. Disabitata dall’uomo ma non da uccelli, pesci e crostacei. Fuori di ogni rotta navale, non di quella della trasmigrazione stagionale delle tartarughe marine. Così l’incipit del film è il ritorno dell’uomo alla condizione primigenia del suo essere elemento al pari degli altri della natura. Trovati i frutti cui cibarsi e l’acqua cui dissetarsi, l’uomo vuole andarsene da quel circoscritto seppure rigoglioso deserto in mezzo al mare. Vuole tornare a quella civiltà che ha soggettato a sé la natura, separandosi, isolandosi sempre più da essa. Tagliando e legando tra loro i tronchi della folta vegetazione e facendo una vela con il fogliame cerca di prendere il largo. Ma ogni volta una grossa tartaruga rossa gli taglia la via d’acqua, rovesciando e mandando in pezzi la misera zattera. È la lotta stessa dell’uomo in sé contro la natura. La lotta per sconfiggerla, sottometterla al suo volere. Ma questa volta sembra non riuscirci: per quante volte ritenta pazientemente, faticosamente l’impresa, essa inesorabilmente fallisce. Deve rassegnarsi alla legge di quell’isola, di quel territorio incontaminato e prezioso per il ciclo di nascita, morte e rinascita delle tartarughe, di loro periodico arrivo e partenza, di loro scambio vitale con il mare. Anche, l’uomo deve ibridarsi con questa natura, diventarne parte intima, inscindibile. Proprio come fanno le tartarughe. Aspettare e rispettare i ritmi scanditi dal sole, dalle piogge, dalle maree, anche nelle loro improvvise, inaspettate drammaticità. Attesa e rispetto che sono anche apprendimento simbiotico, biologico-esistenziale. La totale impossibilità di tornare alla civiltà del dominio umano, proprio su quell’isola remota, irraggiungibile gli toglie poco alla volta la vecchia pelle dell’isolamento dell’uomo dalla natura. Gliene fa crescere una nuova, come fosse davvero un altro essere, un figlio di sé stesso avuto dal mare, dal nuoto e dal respiro sotto la sua superficie di una tartaruga, dalla brezza di quello scoglio verde perduto nella corrente di un oceano primordiale. Una parabola muta della condizione umana contemporanea, della sua necessità di ritrovare un’unione, un patto, una nuova alleanza con la natura che consenta alla civiltà di uscire fuori dalla sua aridità, disperazione, per riconquistare la possibilità di una rotta nella profondità originaria del mondo. Una parabola tra il mitologico-vitale e il reale-esistenziale che non poteva essere resa in nessun altro modo tanto cogente e coinvolgente quanto l’espressione altamente stilistica del silente tratto grafico-narrativo che qui ci viene offerto.

di Riccardo Tavani

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