Ci fu una volta il ’68 e vi racconto che …

Carissime Lucia e Daria,

di tanti argomenti che ci siamo detti, ce n’è uno che vi ha visto solo ascoltatrici, di cose successe in un periodo in cui tu, Lucia, eri una bimba e tu, Daria, non c’eri, saresti nata più di venti anni dopo.
Si parlava di un periodo, il sessantotto, ne ricorre il cinquantennio, che da qualcuno è stato avvicinato ai movimenti di antipolitica dei nostri giorni, e mi avete chiesto se c’erano analogie. Niente di più sbagliato, davvero.
Perché i movimenti nati nel sessantotto non erano affatto antipolitica.

Vedete, ragazze, non erano contro la politica. Erano contro l’organizzazione sociale che i partiti di allora accettavano tranquillamente.
Erano antisistema, rifiutavano l’organizzazione del mondo, la stessa di oggi , fondato sul profitto, sull’individualismo, sull’egoismo.
Erano di parte, non avrebbero mai accettato che si dicesse come oggi che non esistono più destra e sinistra, perché affermarlo significava accettazione del sistema di vita, delle sue ingiustizie, dei suoi sfruttamenti, delle sue imposizioni di consumi.
Erano rivoluzionari, volevano una politica vera per una società nuova, fatta con speciale attenzione ai più deboli, di fraternità, di uguali diritti.

Ancora di più, ragazze, avevano una lettura della società che è l’opposto di quella che i movimenti di oggi propongono.
Erano internazionalisti, ponevano i problemi comuni in tutti i paesi del mondo, dalla emarginazione della gente di colore in Usa allo sfruttamento generalizzato nel mondo del lavoro, ai diritti calpestati nel mondo sovietico, alle oppressioni dittatoriali in Sudamerica. Mi trovavo a Parigi nel 1974, quando a Brescia ci fu la strage di Piazza della Loggia. E vidi nascere subito una manifestazione di solidarietà di studenti e operai che gridavano: “De Paris a Brescià le fascisme ne passe pas”.
Erano colti, con un fermento di studi sull’organizzazione della società e del lavoro in ogni paese, in ogni area.
Si discuteva molto nelle scuole occupate, dove si ponevano nuovi rapporti tra studenti e professori e sui programmi.
Si viveva grande solidarietà tra studenti e operai, fino ad allora in mondi separati. “Metà studio e metà lavoro” era la meta comune.

Si studiava molto di economia, con drastica riduzione della forbice delle retribuzioni e con ampia estensione dell’imposizione patrimoniale.
Si affrontava l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche, dove si rifiutavano le disumane catene di montaggio per un più efficiente modello, le isole di montaggio, autogestite da squadre di operai.
Erano operativi, non solo teorici. Davano una mano dove necessario, nel sessantotto per il terremoto del Belice, nel settantasei in quello del Friuli, nelle fabbriche fallimentari, dove si attuava l’autogestione.

Ho un ricordo particolare, ragazze, quello della situazione abitativa a Roma. Anno 1969, 16.000 famiglie vivevano in baracche, 50.000 erano in forzata coabitazione, mentre gli appartamenti disabitati erano 40.000 … Seguirono occupazioni di case in varie zone della città. Al Celio riguardarono dapprima 220 alloggi, poi altri 300. E le autorità minacciarono uno sgombero forzato, motivato da condizioni igienico-sanitarie assolutamente carenti. Come risposta, un gruppo di studenti degli ultimi anni della neonata Università Cattolica di medicina e con essi qualche medico tra gli assistenti universitari, organizzarono un efficiente presidio sanitario, che durò parecchi mesi e fece scongiurare lo sgombero.

La speranza, è un altro dato di allora, ragazze, credo sia giusto ricordarlo.
Erano pieni di speranza, quei movimenti. Di una speranza che si viveva insieme, nella solidarietà, nella fraternità.
Che aveva contro i benpensanti, la borghesia conservatrice che accusava gli studenti di libero amore.
Che aveva contro la diffidenza del Pci, che non accettava posizioni diverse e più impegnate delle sue.
Che aveva la partecipazione di quel mondo cristiano che nel Concilio Vaticano Secondo ritrovava i principi delle origini.
Che aveva il conforto di un mondo solidale di cantautori che nelle loro canzoni facevano vivere tra la gente le speranze e le lotte.
Che aveva il sostegno di quotidiani autofinanziati. Di essi, oggi, sopravvive solo “Il Manifesto”, testimone del tempo che fu, anche se non più strumento di lotta e di proposta di un diverso avvenire.

Una speranza, ragazze, di vivere insieme un nuovo modo di essere. Di viverlo insieme. Che c’era allora e che oggi proprio non avverto.
E mi addolora, perché non riesco ad immaginare una società futura di individui che vivono per se, da soli, senza la felicità di vivere insieme.
C’è molto da fare, per tornare a quella speranza, ragazze. Soprattutto per voi donne. Perché nel sessantotto ci fu per la donna un momento di liberazione dalle pastoie perbeniste e clericali della società di allora, che però è diventato via via solo un passo avanti nel vivere la sessualità, e anche questo nell’ambito di una società maschilista nella quale la donna è dipinta in funzione del maschio.
C’è molto da fare, per una società più giusta, nella quale in tutto il mondo siano totalmente superate anche le disuguaglianze e le discriminazioni di sesso …
Molto dovrete fare, moltissime guerre dovrete vincere. Tutti i miei auguri, Lucia e Daria !!

di Carlo Faloci