Splendori e miserie di Russia 2018 – parte 1
“Benvenuti in Russia, un Paese aperto, ospitale e amichevole”. Così Vladimir Putin ha voluto inaugurare, allo Stadio Luzniki di Mosca, i mondiali di calcio 2018. Un discorso rapido, sobrio, veloce. Sorrisi davanti alle telecamere e strette di mano in tribuna.
La nazionale in campo ha vinto 5-0 contro l’Arabia Saudita. Sugli spalti, il suo presidente ha già vinto. Questi mondiali, comunque andranno a finire, sono una nuova medaglia per Putin, una sua nuova conquista. Come le Olimpiadi invernali di Sochi 2014, per i quali aveva speso 40 miliardi di euro. Una vetrina mondiale per ricacciare sotto al tappeto tutta la sporcizia del paese e mostrarsi splendidi, puliti e orgogliosi.
La storia dell’assegnazione di questo torneo alla Russia, raccontata da Ken Bensinger, reporter di BuzzFeed News, nel libro Red Card, è fatta di spie, tangenti, ricatti, informazioni. Si dovevano giocare in Inghilterra, ma Putin si mise di traverso: aveva bisogno di un gesto importante per festeggiare, e rinforzare, il suo quarto mandato consecutivo, ottenuto in marzo con oltre 56 milioni di voti. Ha corrotto i dirigenti Fifa, ha chiesto aiuto ai grandi oligarchi russi, Roman Abramovich su tutti, ha usato la sua dezinformatsiya, le fake news e la stampa di regime, per screditare gli altri candidati. E grazie al ritorno di immagine e il flusso di soldi interno, Putin ha già vinto i suoi mondiali.
Intanto, quello appena iniziato, sarà il mondiale con più oriundi di sempre. Nazionali multietniche, squadre aperte: sono ben 83 i giocatori su 736 ad essere nati in un altro paese rispetto a quello per il quale giocano. C’è il Marocco di Ziyech, nato in Olanda, che vanta 17 giocatori su 23 nati all’estero, tra Paesi Bassi, Canada, Spagna. Poi il Portogallo di Gelson Martins, nato a Capo Verde, la Francia di Umtiti, originario del Camerun, la Svizzera di Dzemaili, albanese nato in Macedonia.
Intanto, l’Italia, che sarà spettatrice di questi Mondiali, si aggroviglia sulla questione Balotelli. “Il mio capitano è di sangue italiano” avevano scritto sulle tribune di San Gallo, in occasione dell’amichevole contro l’Arabia. “È ora che l’Italia si svegli e impari ad integrare di più – ha detto l’attaccante, al quale Mancini è pronto a dare la fascia e che sarà ospite del raduno antirazzista di Pontida – Il razzismo fa molto male, dà fastidio. È ora che l’Italia diventi come tanti Paesi, più aperta”. Una proposta subito bocciata dal Ministro dell’Interno Salvini: “Serve umiltà per fare il capitano. Balotelli parla di Ius Soli? Non è la priorità degli italiani nè mia, Mario divertiti dietro al pallone”.
Intanto l’Italia ai mondiali ci andrà. Tra un anno, in Francia, per quelli femminili. Una cavalcata inarrestabile delle ragazze di Milena Bertolini, allenatrice della nazionale italiana femminile di calcio, che gli permette di centrare un obiettivo che mancava da Usa 1999. “Eravamo rimasti fermi 15-20 anni in termini di investimenti, e lo abbiamo pagato. Le persone intelligenti però sono quelle che cambiano e la Federazione ha avuto le intelligenze di mettersi in discussione”.
Ma resta ancora da fare molto. Per capire quanto siamo indietro basta fare riferimento alla legge 91/81, che distingue l’attività professionistica da quella dilettantistica. In accordo con le Federazioni Sportive, sono riconosciute “professionistiche” quattro discipline sportive: il calcio, il golf, il basket e il ciclismo. Tutte solo nel settore maschile. Alle atlete italiane è negato l’accesso alla legge statale che regola i rapporti con le società, la previdenza sociale, l’assistenza sanitaria e il trattamento pensionistico. Questo sostanzialmente perchè lo sport femminile non assicura una quantità di introiti sufficiente per essere preso in considerazione. Magari servirà vincere il Mondiale per far cambiare le cose.
di Lamberto Rinaldi