Il lotto 285 – capitolo quinto

“In casa nostra, in questo immenso caseggiato di periferia, un vero falansterio commisto a indistruttibili rovine medioevali, è stato diffuso, stamane, nella gelida nebbia della mattina d’inverno, il seguente comunicato:
A tutti i miei coinquilini.
Possiedo cinque fucili giocattolo. Sono appesi nel mio armadio, uno per ogni gancio. Il primo appartiene a me, per gli altri può presentarsi chiunque…..” (continua)
Franz Kafka

capitolo quinto

Ben presto arrivammo, alla fine di una dolce discesa, ad uno spiazzo non ancora asfaltato sul cui lato sinistro si ergevano poche basse costruzioni, constatai di recente fattura, che erano disposte a semicerchio, quasi a voler prevedere, con successive aggiunte, la formazione di un’area protetta, quasi una sorta di fortino che dovesse isolare gli abitanti dalla macchia selvosa che si poteva scorgere tutt’intorno alla piccola valle. Le case, tutte simili fra loro, erano costituite da due piani, un ingresso sul giardino prospiciente e una scala in muratura aperta e accorpata al lato sinistro, oltre a una interna, più corta, che evidentemente servivano da accesso ai due piani in modo indipendente l’una dall’altra. Dei marmocchi giocavano sullo spiazzo polveroso a moscacieca, rincorrendosi e gridando, ed al nostro appropinquarci alcuni di loro ci vennero incontro, contornando la mia compagna in una sorta di girotondo scherzoso che via via si faceva più pressante, tanto che ella dovette allontanarli con un tenero ma deciso gesto della mano. In quel gesto affettuoso intravidi una certa familiarità, tanto che pensai che i piccoli appartenessero alla stessa famiglia (fratelli, cugini, o altro) di quella che ora, liberatasi dalla stretta, mi accompagnava su per la scala esterna, a quello che doveva essere il suo appartamento posto al secondo piano. Intanto le grida erano cessate ed i ragazzini si adunarono davanti all’ingresso principale, alcuni fermandosi al piano terra ed altri salendo di un piano, fino a raggiungere le loro rispettive abitazioni. Doveva essere l’ora di cena, anche se non avvertii alcun segnale che mi facesse pensare al futuro desinare di chi si trovava all’interno. Nel salire la scala udii però una porta aprirsi e vidi sgusciar fuori un uomo sui cinquant’anni che, senza apparentemente accorgersi della nostra presenza sul ballatoio, si sporse dalla balaustra e con un forte vocione chiamò a raccolta i bambini rimasti che prima avevano attorniato la ragazza.
Notai che sia l’uomo che i marmocchi erano di carnagione scura, quasi olivastra, con i capelli neri crespi come cespugli nella notte. Anche gli occhi, che brillavano alla luce del tramonto che sopraggiungeva, erano cupi e profondi, come quelli della mia compagna, tanto che lo sguardo (soprattutto quello dell’uomo) rivelava una certa ferma diffidenza nei confronti del giovane che ora accompagnava la giovane donna. Non ci furono convenevoli, anzi la mia compagna quasi mi trascinò all’interno della casa, superando senza fermarsi l’uomo e i ragazzini che nel frattempo erano sopraggiunti affollando il ballatoio con risatine e schiamazzi. L’ospite, quale io pensavo di essere, venne subito accolto con molta familiarità da una donna non più giovane vestita di nero, che mi abbracciò e mi disse di essere il benvenuto e che mi sedessi al desco che vedevo già preparato su un lungo tavolo che occupava quasi tutta la stanza d’ingresso. Consumando in silenzio la parca cena lanciavo delle occhiate furtive alla numerosa famiglia che era seduta, composta, attorno al tavolo ed in particolare alla mia compagna, che mi sedeva accanto, quasi a volerle chiedere, con muti sguardi, cosa ci facessi io in quel luogo e quali fossero i legami di parentela che stringevano fra loro i miei commensali. Mi venne subito chiarito che l’uomo sospettoso e la donna in nero erano i genitori della ragazza e quel nugolo di marmocchi i suoi fratellini, mentre altri fratelli più grandi e quasi suoi coetanei erano fuori a lavorare. Non pago di questa informazione volli sapere poi da dove provenisse quella numerosa famiglia e mi venne raccontato che da generazioni erano emigrati da un piccolo paese del mezzogiorno verso la grande città, dove la mia compagna era nata, per poi raggiungere, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, la Francia e più precisamente l’Alsazia. Erano quindi tornati dopo più di dieci anni nella capitale, in cerca di lavoro e di una sistemazione definitiva in patria. Furono loro assegnati, quindi, alcuni appartamenti in quelle case che il regime aveva fatto costruire per gli sfollati e per i reduci dagli smembramenti di interi caseggiati che erano stati effettuati nei quartieri vecchi della città per far posto a nuove strade e palazzi che esaltassero, con la loro magnificenza, le conquiste dell’impero.
Finita che fu la cena e fatte le dovute presentazioni, (anch’io avevo nel frattempo rivelato le mie origini e le mie ascendenze, pur senza identificarmi, vista la mia attività clandestina, con nome e cognome, i quali erano persino sconosciuti alla mia compagna) stavamo per alzarci quando ella mi prese per un braccio e, mettendo con fare furtivo il dito indice sulle labbra, mi fece capire che c’era qualcosa della quale voleva mettermi a parte. Io al momento non capii ma ella cercò di essere più esplicita e, mettendo una mano sotto al tavolo per non farsi vedere da occhi curiosi, fece con le dita un segno, che era inequivocabilmente quello di una pistola, tanto che io la guardai, chiedendo con gli occhi cosa volesse intendere con quel gesto. Allora lei si alzò con fare deciso, si scusò coi genitori e mi accompagnò in una stanza contigua con quattro letti che la occupavano quasi totalmente. Alla parete in fondo c’era solo un grande armadio a tre ante e su quella di lato, vicino alla finestra, un cassettone di vecchia fattura con sopra alcune suppellettili.
Non avendo ella chiuso la porta, stornai subito dalla mente propositi che ci avrebbero potuti portare ad una certa intimità e mi rassegnai a seguire lei nello svelamento di quello che mi era sembrato essere un segreto. Così lei, guardandosi intorno per essere sicura di non essere vista da occhi indiscreti, dopo aver tolto le poche suppellettili dal piano, aprì il cassettone e me ne mostrò, con fare furtivo, il contenuto. Alla prima vista sembrava costituito da oggetti in metallo, lunghi e corti, che subito constatai essere armi, di vecchia fattura, ma apparentemente in buono stato. Mitra, pistole e, custodite in un involucro di cuoio, quelle che apparivano essere delle bombe a mano, a serramanico, di fabbricazione tedesca. Meravigliato, e ancor più spaventato da quella vista, la spinsi indietro, chiusi velocemente il cassettone e la guardai con fare interrogativo. Cosi ella mi confessò, con un segno d’intesa che io non mi aspettavo, di aver custodito una parte di quelle armi che avevamo requisito giorni prima, riteneva in un luogo sicuro, in una casa insospettabile di periferia, fuori dai circuiti nei quali frequentemente passavano, in cerca di rifugiati, le truppe nemiche. Avevo poco da obiettare a quella scelta ma mi chiesi, e le chiesi con sguardo interrogativo, cosa sarebbe successo se i suoi familiari avessero scoperto quell’arsenale. Lei mi assicurò che dovevo essere sicuro di quel nascondiglio, che i suoi parenti ne erano a conoscenza e mai avrebbero rivelato l’esistenza di quello che lei aveva custodito con grande perizia. Io non potei che accettare quelle sue giustificazioni ed anche, in me stesso, lodai il coraggio che lei, poco più che adolescente, aveva usato in quell’azione pericolosa.
Quello che mi veniva ora in mente era quello di regalarle, quale risposta a quella scoperta, null’altro che un semplice gioco con le parole (di cui ero particolarmente esperto, insieme a quello con i numeri) ed inventai lì per lì questa frase “E NOI FORTI IN ARMI”, che non era altro che il perfetto anagramma del mio nome e cognome, che ritenevo ella ancora non conoscesse. Ripetei la frase poi al cospetto dei suoi familiari, i quali (soprattutto i più piccoli) stentavano a trovarne la soluzione, un poco vergognandosi, pur essendo poliglotti, ma pur tuttavia sforzandosi in quello che ritenevano (e che in effetti era) un gioco. Ma stava soprattutto a lei, la più a me vicina, sciogliere l’incastro e risolvere l’enigma. Quindi, per aiutarla, le diedi una seconda chiave di lettura del rebus, che consisteva in un’altra frase, forse dall’aspetto più pessimista e meno roboante, che era: “A NOI FORTI INERMI”.
L’allusione, forse non troppo velata, alle armi, suscitò una qualche curiosità, se non un certo sospetto, in quelle persone, certo non dedite a frequentare oggetti e persone pericolose, tanto che il padre mi chiese a un certo punto se non avessi qualche frequentazione con elementi poco raccomandabili, cose che in quel periodo di guerra e di disperazione non era del tutto infrequente. Lo assicurai che tutto questo era stato concordato col vertice del partito, che nulla era lasciato all’improvvisazione e che tutto si sarebbe svolto secondo piani precisi.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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